Corriere della Sera, 20 agosto 2019
Intervista a Andrea, il primo dei sette figli i Renzo Rosso
Hanno gli stessi occhi azzurri, ma uno ha i capelli e l’altro no. «Io questa cosa della genetica non l’ho mai capita...», dice con finto sconforto il figlio, berretto militare in testa (non del suo marchio MYAR), mentre guarda i ricci disordinati del padre. Siedono uno accanto all’altro, nel quartier generale dell’impresa di famiglia a Breganze, nel Vicentino, davanti a una bottiglia di Rosso di Rosso del 2012, Cabernet e Merlot premiato con 94 punti da Robert Parker, l’Avvocato del vino. Pranzo semplice e saporito: insalata all’inizio, pollo ai ferri per il più giovane, branzino alla piastra per il più anziano, anguria alla fine. Non sembrano il direttore creativo di tutte le licenze Diesel e il patron dell’azienda con 6.500 dipendenti nel mondo e un fatturato da un miliardo e mezzo di euro, ma esattamente quello che sono: il primogenito e il suo papà.
Comincia Renzo Rosso, 63 anni e sette figli (Andrea, Stefano, Alessia, Luna, Asia, India e Sydne): «Ricordo quando è nato, all’ospedale di Dolo. Lo aspettavamo da tre giorni. Ero seduto fuori dalla sala parto che leggevo la Gazzetta dello Sport, quando mi accorgo della data: 22/11/77. Ho pensato: che bello se nascesse oggi. Dieci minuti dopo, alle 21.20, è arrivato lui. Era pazzescamente bello, dopo ha peggiorato...», racconta scherzando, visibilmente orgoglioso.
Andrea Rosso prosegue con il suo primo ricordo di bambino. «Non ci ha mai permesso di imparare a nuotare con i braccioli, ci buttava direttamente in piscina. Mi è rimasto dentro l’odore del cloro. Lo stesso vale per il tennis o per tutto il resto: si imparava facendo». E Renzo: «Si sono vendicati per il mio cinquantesimo compleanno, quando lui, il fratello Stefano e la sorella Alessia mi hanno bendato fino a una pista, dove ci aspettavano quattro paracaduti: sono dovuto saltare per primo, perché mi sento un leader, e poi non potevo tirarmi indietro...». Andrea ricorda anche quella volta che i figli proposero al padre di insegnargli a fare snowboard: «Noi non avevamo la patente, avevamo bisogno di lui per arrivare in montagna. Una volta su, lo lasciammo in cima, e ci raggiunse dopo bestemmiando!».
I momenti belli, in effetti, non si contano. Ancora il figlio: «I viaggi, tutti. Ma anche le partite di calcio, segnare un goal di testa dopo che tuo padre ti ha fatto cross». E le finali del Milan: «Ad Atene quando abbiamo vinto la Champions, a Vienna contro il Benfica e tutto lo stadio che cantava Volare, ho ancora i brividi... Avevamo fatto il viaggio ascoltando gli U2». E il padre: «La più brutta fu a Istanbul, quando perdemmo ai rigori».
Sul lavoro, Andrea ammette di non aver avuto sempre fiducia nelle intuizioni del patron. «Sui passeggini Bugaboo, per esempio, ci credevo zero. Non riuscivo ad associare l’idea della protezione di un bambino agli elementi rock, militare e jeans del nostro marchio. Dovemmo smontare ogni pezzo da zero e invece è stato un successo: in tre anni ne sono stati venduti sedicimila». La verità è che ammira in modo totale il padre imprenditore: «Vorrei avere il suo coraggio. Io devo sempre pensare moltissimo alle cose, non riesco a decidere in fretta». E, se possibile, lo ammira ancora di più come uomo: «Mi è stato sempre vicino, in tutti i momenti difficili, soprattutto dopo l’incidente».
L’incidente è un capitolo delicato e doloroso. «Era il 14 marzo 2009». Di sera Renzo riceve la telefonata che ogni padre teme: Andrea in Austria aveva fatto un volo di venti metri con lo snowboard, era in rianimazione. «È stato il momento più difficile della mia vita, in due secondi ho preso l’elicottero, l’aereo ed ero già all’ospedale. Ho usato tutti i mezzi a mia disposizione per aiutarlo, anche un po’ di cattiveria e non mi pento». Quando si è svegliato dal coma, è stato il padre a raccontare al figlio cosa era successo. Gli è stato accanto nella lunga riabilitazione, al lavoro aveva dato istruzioni precise: chiamatemi solo se prende fuoco l’azienda. Andrea la racconta così: «Quando riapri gli occhi e vedi i tuoi genitori al tuo capezzale, quella immagine ti resta impressa nel corpo».
Oggi Renzo è orgoglioso soprattutto di una cosa: «Andrea è un ragazzo educato. Quando mi dicono che è umile, che è una bella persona, io sono confortato, perché educare è difficile e forse ci sono riuscito». I regali a cui tiene di più non si possono comprare: «Sono le lettere che mi scrivono i miei figli a Natale. Le aspetto sempre, più di ogni altro dono».