Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  agosto 20 Martedì calendario

Intervista a Cesare Maestri, il rocciatore che ha scritto buona parte della storia dell’alpinismo

 «La mia impresa adesso è vivere con dignità fino alla fine. Sono un vecchio, ma non voglio passare per “mona” con me stesso e così non mi nascondo. Sì, sto in piedi e cammino solo grazie al girello, la testa vaga a lungo per luoghi ignoti. Dipendo dagli altri.
Sono stato forte e ho visto mia moglie Fernanda morire: ho imparato a non avere paura di essere ammalato e di diventare debole. Un uomo alla fine dovrebbe vivere come ha vissuto».
Cesare Maestri il 2 ottobre compie 90 anni e ogni giorno esce di casa per guardare le Dolomiti di Brenta. Non ha nostalgia: ha bisogno di «controllare sempre il mondo dove sono stato giovane e che mi ha insegnato tutto». Assieme a Walter Bonatti, dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento, è stato il più forte rocciatore del mondo. Ha fatto la sua parte nello scrivere la storia dell’alpinismo e ha dedicato la vita all’avventura. «La grandezza di un’impresa – dice in questa intervista con Repubblica – non è riuscire a farla dopo, ma immaginarla prima». Ormai parla a fatica e per trovare le parole necessarie gli serve tempo. A Madonna di Campiglio vive da 63 anni. Non ha più la faccia e il fisico di una volta, fermati nelle immagini delle riviste e negli aggettivi di Dino Buzzati. Quando le persone lo incontrano però, ancora si fermano per abbracciarlo e dirgli grazie. «Dicono che è straordinario – spiega – vedere uno che non molla mai e che non si vergogna, stagione dopo stagione, di essere com’è». Si è deciso, questa volta, di non parlare di alpinismo e di pensare solo alla realtà. Per il suo compleanno usciranno due film. Reinhold Messner ha finito le riprese che raccontano la sua verità sul Cerro Torre. Il «re degli Ottomila», dopo sessant’anni, vuole dimostrare che Cesare Maestri e Toni Egger in vetta non sono mai arrivati. Alcune giovani guide alpine invece, guidate da Silvestro Franchini, hanno ripetuto e filmato le grandi ascese e le discese su roccia tracciate da Maestri e gli regaleranno un documentario sulla «bellezza delle sue vie» in solitaria.
Un film per demolire un mito e uno per ricordare una leggenda: questo è il solo tema che oggi convince Cesare Maestri a ritornare, per un attimo, «nell’inutilità del passato».
Per dire cosa?
«Che deve valere la parola. Quella di un alpinista, da una certa quota in su, è sempre stata sacra. Non esisteva la tecnologia. L’alpinismo si è scritto fidandosi della parola, non delle immagini. Se questa non vale più, va cancellata la storia delle imprese. Io ho dato la mia parola su una montagna che si trovava in un altro clima e in condizioni diverse.
Nessuna immagine di oggi può smentire una verità del 1959. Il problema è che il punto non è questo».
Qual è?
«Il punto, nella vita, non è se sei arrivato un metro sopra, o se ti sei fermato un metro sotto. Il punto è se sei riuscito a essere un uomo, oppure no. Io non sono più il “ragno delle Dolomiti”. Sono un vecchio, ma ho sempre rispettato gli altri. È la fiducia che tiene in piedi l’umanità: il problema è che adesso manca».
A Reinhold Messner cosa dice?
«Non parlo di lui. Impone la verità su persone come me, che non possono più difendersi. O su altri amici, come Toni Egger e Cesarino Fava, che sono morti. Non mi offende la vigliaccheria, ma la cattiveria.
L’alpinismo non c’entra, penso alla nostra vita di tutti i giorni».
In primavera suo figlio Gianluigi l’ha difesa: perché ?
«Capisco la sorpresa, in un mondo che non riconosce più il valore dell’amore. Un figlio ha difeso un padre non per onorare una famiglia, ma per affermare la forza della confidenza. Lui sa chi sono: ormai non succede spesso tra gli esseri umani, ha potuto parlare per me.
Non vorrei però parlare solo di cose marginali».
Cosa valuta più significativo?
«L’esperienza di un atleta, considerato forte, bello e famoso, che con la vecchiaia ritorna fragile, brutto e anonimo. Un tempo si moriva prima. Adesso il problema di come passare la notte che segue il tramonto, si pone per molti».
Come lo affronta?
«Con il coraggio. Credo sia l’unico appiglio che non ti tradisce, dall’inizio alla fine. Non avere paura è fondamentale. Se mi rivelassero l’ora in cui morirò chiederei solo mezz’ora in più per salutare come si deve le persone che amo».
L’hanno sempre accusata di spavalderia, gettava nel vuoto la corda prima di scendere da pareti di sesto grado: non crede sia eccessivo esagerare anche con l’ultimo istante?
«Mi preparavo e poi avevo fiducia.
Non ho mai voluto morire in montagna. Quello è il posto dove ho vissuto. Ricordo che l’alpinista più completo è quello che invecchia e che muore solo per colpa della vita.
Ho avuto un tumore, braccia e gambe faticano a muoversi, la testa se ne va.
La mia impresa adesso è fare cinquanta metri in mezz’ora per arrivare al supermercato. Per questo continuo a non avere paura».
Come sono cambiate le sue giornate?
«Sono figlio di attori, da ragazzo ho fatto il ladro nelle caserme dei nazisti. Ho arrampicato per fame e per non finire fucilato. Portavo a spalle i viveri nei rifugi del Brenta in cambio del pranzo. Nella vita ho salito oltre 3500 pareti in tutto il mondo. Adesso faccio ginnastica contro la ringhiera delle scale di casa, dormo 12 ore al giorno, esco a controllare le montagne da lontano e rubo le caramelle che mi nascondono. Da vecchi serve più coraggio che da giovani: e l’impresa di sopravvivere non la sponsorizza nessuno».
Cos’è un’impresaa 90 anni?
«Resta la volontà di superare i propri limiti. Nell’impresa c’è l’emozione, nell’exploit conta solo il traguardo. Io a questo punto sarei pronto anche a dissolvermi e a sparire. So che non è possibile, così mi alleno ogni giorno e vivo.
L’impresa di un vecchio è andare avanti aggrappato alla dignità».
Pensa di avere avuto una vita importante?
«Non ho sottovalutato l’importanza dell’inutile.
So di aver vissuto per arrampicarmi sul niente, mi capita di chiedermi cosa cazzo ho fatto per così tanto tempo. La realtà è che siamo stati figli della guerra, cresciuti tra problemi grandi. Il più grosso, assieme alla fame, era la retorica. Nessuno è stato risparmiato, pensiamo alla cosiddetta letteratura di montagna, o a quelle che chiamiamo vette. L’unica cosa importante che ho fatto, lo ammetto, è restare libero».
Non crede che questa sia una giustificazione per il mistero delle scelte che si fanno?
«Io, al massimo, riesco ancora a essere semplice.
L’alpinismo mi ha insegnato a vivere. Il suo ricordo mi insegna a morire. Ho avuto solo due cose e non me le ha imposte nessuno.
In tempi incomprensibili, lo dico anche se non guardo più il telegiornale, vale la pena correre il rischio di apparire patetici per difendere la libertà e le vite degli altri».
Questo è il congedo di Cesare Maestri. Si alza dalla panchina affacciata sulla piazzetta di Madonna di Campiglio, si aggrappa al suo girello e lentamente se ne va. Le sue mani restano grosse e dure. Sulla roccia le metteva nude.
Oggi, sull’acciaio che lo tiene in piedi, le posa dentro i guanti. Quando finirà l’estate, per la prima volta, proverà a stare un periodo in una casa di riposo. Unica condizione: vedere le montagne dalla finestra «perché sono il mio ultimo specchio». Prima di andare via si gira e molla il girello: resta in equilibrio un momento, si asciuga gli occhi e fa segno di abbracciare l’aria.