La Stampa, 19 agosto 2019
Gli 80 anni di Enrico Rava
Domani, 20 agosto, il più importante e influente jazzista italiano (probabilmente anche il più bravo, se avesse senso una classifica del genere) compie 80 anni. Enrico Rava taglia il traguardo in grande forma: «Preferisco non pensarci troppo – dice – ottanta sono tantissimi, chi alla mia età suona la tromba come la sto suonando io e gira il mondo? Nessuno».
Qual è il segreto?
«Da giovane stavo anche tre giorni di fila sveglio, oggi appena finisco il concerto mi fiondo a letto. Limito i viaggi in aereo: mi piace il treno ad alta velocità e mi piace guidare, soprattutto se c’è mia moglie, parliamo e ascoltiamo musica. Ma soprattutto amo suonare. Quando suono, mi sento vent’anni».
Studia molto?
«Mia moglie si sveglia prestissimo, alle sei, io non dopo le otto. Dopo un’oretta prendo in mano la tromba e faccio 40 minuti di esercizi basici. Poi la metto via. Se la sera non suono e ne ho voglia, nel pomeriggio faccio un po’ di scale. Conta non mollare mai: se salti un giorno o due, ce ne vogliono dieci per recuperare».
Come per un atleta.
«La tromba è speciale. A New York c’era Carmine Caruso, Trumpet Therapist. Quando il suono non era bello gonfio, non c’era resistenza, non arrivavi all’acuto, Carmine interveniva, ti calmava e risolveva il problema. Aveva studiato il corpo umano, lo immaginava come la cassa armonica di un violino, ma era soprattutto un grande psicologo. Aveva sempre lavoro, io ci sono stato diverse volte, ma anche Dizzy Gillespie, Chet Baker».
Come sta il jazz italiano?
«In tutta Europa non c’è concerto che non faccia il tutto esaurito. Il pubblico c’è. L’Italia è piena di bravi musicisti. Da qualche tempo faccio un seminario a Siena con un gruppo di giovani: quest’anno mi sono divertito come un matto, c’era una batterista di 22 anni originalissima per musica e gestualità che può avere un futuro grandioso. All’Aquila, dove Paolo Fresu ha organizzato un festival molto emozionante per far rinascere la città, i jazzisti italiani erano centinaia. Ai miei tempi eravamo in tre».
Tre?
«Oltre a me, Franco D’Andrea e Nunzio Rotondo. Ce n’erano altri, anche bravi, ma avevano un altro lavoro, spesso suonavano in un’orchestra. Noi volevamo vivere di jazz. Pazzi. Era come cercare il petrolio e pretendere di trovarlo in piazza San Carlo».
Già, Torino. È lì che è cominciato tutto?
«A Torino, dove ho vissuto dai tre anni alla maturità, ho visto Louis Armstrong all’Alfieri, Duke Ellington, Quincy Jones al Carignano (c’era più gente sul palcoscenico che in sala), Miles Davis al Nuovo con Lester Young e il Modern Jazz Quartet. Lo ricordo come se fosse ieri (era il 1956, ndr). Miles era speciale, come persona, come musicista. Fino a Bitches Brew (del 1970, ndr) non ha sbagliato nulla. Il giorno dopo sono andato a comprarmi una tromba».
E ha trovato il petrolio in piazza San Carlo.
«Poco più in là, a Chivasso. Lavoravo nell’azienda di famiglia, ero disperato. Ma il bassista, che arrivava da Milano, aveva portato con sé un sassofonista argentino che aveva conosciuto il giorno prima, Gato Barbieri. Dopo tre note di Night in Tunisia mi resi conto che era di un altro pianeta. Parlammo tutta la notte. Mi disse: appena posso, mi faccio vivo. A Roma ho suonato con lui tutte le sere per nove mesi. Poi lui è andato a New York, io sono entrato nel gruppo di Steve Lacy».
Con cui il suo jazz diventa “free”, anche se a lei il termine non piace.
«Musica tosta, improvvisazione radicale. Libertà assoluta, l’unica regola era non mettersi d’accordo su niente, neanche su chi comincia. Era la scoperta di un mondo, non c’era nulla a cui appigliarsi. Era bellissimo. In America a volte non ti capivano, in Europa era più facile, anche per motivi sbagliati: i giovani identificavano il Free Jazz con la rivoluzione. Stupidità al potere, fazzoletto rosso e pugno chiuso erano garanzia di popolarità, la musica contava poco».
Quest’anno, per celebrare il compleanno rotondo, suona a New York e Buenos Aires, le due città della sua vita.
«A New York il primo novembre al Lincoln Center, ci tengo moltissimo. Poi Buenos Aires, se è tutto ok, lì è sempre difficile. Non ho mai capito perché un posto così bello e ricco, anche di creatività, possa essere sempre in crisi. È un posto speciale, in cui letteratura e musica sono presenti nella vita quotidiana. È una città fatta di italiani e spagnoli e forse questo spiega tutto, nel bene e nel male».
Il suo prossimo album si intitola “Roma”.
«Sì, perché l’abbiamo registrato all’Auditorium con Joe Lovano e il mio quintetto. Volevamo farlo ascoltare a Manfred Eicher della ECM per farne poi un disco in studio. Ma quando gli abbiamo mandato la registrazione, ci ha subito chiamato: la pubblichiamo così».
Progetti speciali per il dopo 80?
«Andare avanti a suonare finché ce la faccio, limitando i viaggi soprattutto d’inverno. D’estate ci sono i festival e mi diverto troppo».