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 2019  agosto 19 Lunedì calendario

Intervista a SRyuichi akamoto. Al Romaeuropa festival presenterà un omaggio a Bertolucci

«Cinque anni fa i medici mi dissero che dovevo dare l’addio alle scene. Ero troppo debole, per il tumore alla gola, fui costretto a rinunciare all’abitudine delle mie tournée europee. Ora sto molto meglio, il cancro è in remissione, ed ecco che posso venire a Roma per rendere omaggio al grande amico che non c’è più: Bernardo Bertolucci.
Il concerto del 24 novembre al Romaeuropa Festival sarà il mio vero addio a Bernardo».
Ryuichi Sakamoto parla a voce bassa ma non più per ragioni di salute; questa è la sua cifra personale: a volte sembra un uomo dell’Ottocento, per le buone maniere, il senso dell’understatement, l’erudizione.
(Dopotutto, a 11 anni a Tokyo già padroneggiava Bach e Beethoven). Mi riceve per questa intervista nella sua casa-studio al Village di New York uno dei più grandi sperimentatori musicali del nostro tempo. A 67 anni ha accumulato esperienze di una varietà estrema: fu considerato un pioniere della musica elettronica, poi forse il vero fondatore della techno, in seguito un ispiratore del movimento punk.
Ha esplorato territori etnici che vanno dalla bossa nova di Antonio Carlos Jobim ad artisti africani come Youssou N’Dour. È avido lettore di saggi di antropologia, etnografia, paleontologia. Il cinema occupa una parte importante nella sua carriera: il grande regista suo connazionale, Nagisa Oshima, lo volle sia come attore (a fianco di David Bowie) che come compositore nel film Merry Christmas Mr Lawrence (noto anche come Furyo ) del 1983.
Poco dopo quel debutto, ebbe
inizio il suo sodalizio con Bertolucci?
In quali circostanze?
«Oshima ci presentò al Festival di Cannes, e ben presto Bernardo cominciò a parlarmi del suo progetto di allora: L’ultimo imperatore. Ma ci vollero tre anni prima di avere tutti i permessi, soprattutto per l’accesso alla Città Proibita, il palazzo imperiale di Pechino. Per me lui era una figura familiare: avevo 18 anni quando divenni un fan dei suoi film, non avrei immaginato di lavorare con lui 30 anni dopo. E in Cina! Era finita da poco la Rivoluzione culturale maoista, la Cina si stava aprendo molto lentamente. Per me quella Cina evocava un po’ il Giappone di prima della guerra, rivisitato in un film in bianco e nero. Viaggiammo insieme a Bernardo nell’ex capitale della Manciuria, che recava ancora le vestigia dello stile fascista imposto durante l’occupazione nipponica, là vidi con emozione il quartier generale dell’esercito giapponese d’invasione. Oggi mi sento tanto più fortunato di aver visto quella Cina prima che scomparisse. In seguito la collaborazione con Bernardo proseguì con Il tè nel deserto e Piccolo Buddha e la nostra intesa divenne sempre più stretta. Ogni volta aumentava la percentuale delle mie colonne sonore che lui decideva di utilizzare nel montaggio finale».
Lei è sempre stato all’avanguardia nella sperimentazione di nuove tecnologie. Oggi quale bilancio fa del digitale?
«Guardi che l’interesse dei musicisti per le nuove tecnologie non è di oggi, è una costante da sempre. Beethoven aveva una curiosità enorme per l’evoluzione degli strumenti, ai suoi tempi il pianoforte era stato appena inventato e solo dopo di lui raggiunse la forma classica, standardizzata, quella che conosciamo noi.
All’avvento di Internet, io credetti che sarebbe stata una rivoluzione democratica anche per la musica: doveva liberarci dall’intermediazione delle potenti case discografiche, che un tempo decidevano per noi quale musica avremmo ascoltato. Ma vent’anni dopo la delusione è grande: ogni angolo della Rete è capitalizzato, incorporato in un business privato.
Non era quello che volevamo».
E ora la musica si ascolta sugli smartphone… con quali conseguenze?
«Non è il mezzo ideale. Ironia della sorte: agli albori del digitale pensammo che i Cd erano condannati a sparire, ma oggi a Tokyo i negozi di Cd resistono.
Dobbiamo riconoscere che il Cd rappresenta la migliore qualità audio disponibile. Poi ci sono nuove generazioni che riscoprono i dischi in vinile della nostra giovinezza: non proprio ideali come qualità, però hanno lo stesso fascino dei vecchi cinema d’essai dove vai a rivedere pellicole pre-digitali, piene di imperfezioni e crepitio».
Giapponese trapiantato da molti anni qui a New York, lei è un ponte tra cultura orientale e occidentale.
Come vede questo rapporto tra le nostre civiltà, in campo musicale?
«La ruota gira, le influenze sono reciproche. Uno dei primi a capirlo fu il francese Debussy che all’inizio del Novecento volle assorbire tradizioni asiatiche, dal Giappone all’Indonesia: era un genio e un grande pianista, inizialmente influenzato da Wagner, poi s’innamorò dell’Estremo Oriente e ne fece un elemento della transizione dal XIX al XX secolo. Io da bambino mi ero formato su Beethoven, ma quando scoprii Debussy fu una rivelazione e non lo abbandonai più».
I musicisti asiatici “invadono” le grandi orchestre classiche: è un fenomeno ben visibile da New York a Philadelphia a Londra, da Berlino a Vienna a Milano. Ma non c’è una mancanza di reciprocità? Noi occidentali siamo forse meno curiosi, verso le tradizioni asiatiche?
«Gli europei svilupparono i loro linguaggi musicali in cinque secoli, dal Rinascimento al Barocco, dal Classico al Moderno. Il Giappone si è aperto al vostro mondo solo un secolo e mezzo fa, ma se n’è impadronito a una velocità impressionante. La musica che pratico io è fondata su regole occidentali di melodia e armonia. Eppure molti giapponesi non si rendono neppure conto di usare un linguaggio europeo, talmente lo sentono loro. Forse, in questo ambito, noi siamo ancora una vostra colonia».
Al Romaeuropa Festival il 24 novembre lei torna a esibirsi con Alva Noto, nome d’arte del tedesco Carsten Nicolai. Un’altra collaborazione che dura.
«Lavoriamo assieme da vent’anni. Lui viene dall’ex Germania Est, abbiamo dei retroterra molto distanti e apparteniamo a generazioni diverse, lui ha 53 anni. È anche un artista visuale. Forse è proprio grazie a questa diversità che siamo ancora capaci di stimolarci a vicenda, e spesso ancora improvvisiamo. Comunque a Roma vorrei suonare anche una piccola composizione che ho dedicato a Bernardo Bertolucci, il giorno della sua morte».