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 2019  agosto 19 Lunedì calendario

Doppietta e libri. Così i Rigoni Stern ammazzano la guerra

«Quand’era capodanno lui a mezzanotte in punto imbracciava la doppietta e diceva: “Andiamo ad ammazzare la guerra”, e così andava sul pergolo e tirava due o tre schioppettate nel buio, e sembrava davvero di vederla, la guerra, quella brutta befana che gira per il mondo sulla sua scopa maledetta e non si ferma mai, e le schioppettate di mio padre, e anche di noi ragazzi a cui in via eccezionale prestava il fucile calibro 22 che non riuscivamo nemmeno a tenerlo dritto, la colpivano in pieno!».
Non è solo un piccolo ricordo prezioso quello che Gianbattista Rigoni Stern regala su suo padre, Mario. Dietro quell’immagine che ti si ficca nella memoria, con la strada che da Asiago sale verso le trincee del Monte Zebio «dove gli austriaci avevano doppia difesa di reticolati, mitragliatrici in caverna, avamposti, fortini in cemento armato» che falciavano i nostri soldatini, il bosco silente, lo scrittore che raduna i figli per sparare nel buio e «ammazzare la guerra», c’è molto di più.
L’autore di libri come Il sergente nella neve, Storia di Tönle, Ritorno sul Don, Il bosco degli urogalli, ricorda il figlio, dopo aver pagato carissimi «tre anni di guerre inutili e sanguinose, contro la Francia, la Grecia e la Russia, e due di prigionia tra Polonia, Lituania e Austria (...) non riuscì mai a perdonarsi e a perdonare di essersi fatto trascinare in una guerra di aggressione e di conquista, contro un popolo di brava gente, di umili contadini, di operai disciplinati, di gente buona e operosa, che nelle isbe della steppa senza confini erano in tutto uguali ai nostri montanari di una volta».
Ma il suo pacifismo «non fu mai una resa a un buonismo imbelle, non fu il “volémose bene” un po’ ipocrita di tanti privilegiati, e a guardar bene non fu neppure mai disarmato. Infatti come è noto andava a caccia, e non ha mai voluto rinunciare ai suoi preziosi fucili, sempre oliati e bene in ordine». Al di là «di qualsiasi retorica buonista, lui ebbe sempre ben chiaro un concetto, che la pace è soprattutto un lavoro, e un lavoro molto duro, anche più della guerra, perché la pace non è il dolce far niente, il lasciar correre, l’ozio dei popoli, ma al contrario è l’impegno specifico attraverso il quale l’uomo innesta la propria azione in quella della natura, e ne completa il disegno, fruendo saggiamente delle sue risorse e governandola».
Va da sé che Gianbattista prese da subito la strada delle scienze forestali, fino a occuparsi per «tutta la vita lavorativa della gestione dei boschi, delle settantasette malghe della nostra giurisdizione amministrativa e del patrimonio faunistico del nostro altipiano». E da lì, una volta in pensione, ha voluto mettere ciò che sapeva al servizio di un angolo d’Europa che a quel suo altopiano somiglia molto, in Bosnia: «Stessa altitudine, stessa vegetazione, stessi colori, e all’incirca lo stesso cielo». E stesso passato di orrori e di dolore.
Di qua Asiago, distrutta nel 1916 dalla violentissima Strafexpedition austriaca, di là Srebrenica, l’enclave musulmana annientata nel luglio 1995 dai serbi di quel macellaio del generale Ratko Mladic (condannato due anni fa all’ergastolo) con la strage di almeno 8.372 civili.
La prima volta che ci andò nel 2009, spinto dall’attrice Roberta Biagiarelli e altri amici del volontariato, Rigoni Stern pensava a un progetto non troppo impegnativo. Ma già fuori Sarajevo, a tarda sera, si ritrovò immerso in un mondo spettrale che lo turbò: «Un buio pesto, nessun segnale, nessuna macchina, non un’osteria, un luogo di sosta, e ovunque una sensazione sgradevole di solitudine incombente e minacciosa». Da allora, è tornato nella cittadina dell’argento (questo significa Srebrenica, alla lettera Argentina) e nell’area più a monte di Suceska, cinquantaquattro volte.
Ne ha tratto un libro dal titolo bellissimo: Ti ho sconfitto felce aquilina (Editions Comunica). Dove racconta della «transumanza della pace» da Asiago e dalla Val Rendena a Srebrenica. Delle condizioni disastrose in cui, quattordici anni dopo gli accordi di Dayton che avevano chiuso la guerra civile jugoslava, erano ancora ridotte nel 2009 le terre investite dall’uragano della pulizia etnica: «Case e stalle bruciate, abitazioni senza tetto, la gente, soprattutto vedove sole, che si aggira smarrita». «Prati e boschi sono ancora pieni di mine, posizionate a casaccio dalle truppe irregolari, senza una cartografia di riferimento, lungo i percorsi possibili per raggiungere Tuzla». «Poi c’è il problema della felce aquilina, che infesta tutti i prati e i pascoli, ed è risultato evidente dei dieci anni di abbandono...». Un’erba maledetta «che si appropria alla svelta della cotica erbosa, e per il bestiame, alla lunga, è pure velenosa».
Dieci anni di sfoghi raccolti dai pochi sopravvissuti («La terra si poteva lavorare solo di notte perché di giorno sparavano dalla cava di bauxite o col carro armato dalle contrade basse»), di denunce («Nella scuola elementare c’erano quattrocentocinquanta bambini, adesso ce ne sono otto»), di proiezioni con PowerPoint tradotti da Edo Durakovic, un giovane ingegnere, per insegnare le basi dell’allevamento (alimentazione, igiene, cura quotidiana...) a tutti coloro che avrebbero potuto avere in dotazione qualche vacca della Val Rendena («agile, resistente e anche di buona bocca visto che bruca il pascolo come una motofalciatrice, senza lasciar niente indietro») per ricominciare a vivere avviando una stalla.
Uno sforzo enorme. Come solo certi volontari dal cuore grande riescono a compiere, tenendo duro per anni tra mille difficoltà. Superando i momenti di sfiducia e perfino una burocrazia più farraginosa della nostra. Estirpando quasi totalmente la felce aquilina. Riuscendo in più viaggi a trasferire a Srebrenica e Suceska 134 vacche. Aprendo una prospettiva a chi pensava, dopo aver perso tutto, che non avrebbe mai avuto un’occasione per ricominciare.
E c’è qualcosa di struggente nel fatto che al centro di questa «guerra alla guerra» che Gianbattista imparò dal padre ci siano quelle vacche che furono sullo sfondo di tanti libri di Mario Rigoni Stern. A partire da quelle evocate ne Il sergente nella neve: «A quest’ora nel mio paese le vacche escono dalle stalle e vanno a bere nel buco fatto nel ghiaccio delle pozze. Dalle stalle escono il vapore e l’odore di letame e latte; i dorsi delle vacche fumano e i camini fumano...».