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 2019  agosto 19 Lunedì calendario

A Hong Kong la polizia fa un passo indietro

Una domenica vittoriosa per il fronte della protesta antigovernativa a Hong Kong. Vittoriosa per due ragioni. Anzitutto perché nell’undicesimo finesettimana di manifestazioni sono stati ancora centinaia di migliaia (un milione e 700 mila secondo gli organizzatori, 128 mila per la polizia) i cittadini di ogni età che si sono radunati, nonostante il pericolo di prendere manganellate e respirare i lacrimogeni della polizia; nonostante le minacce che arrivano da Pechino; nonostante i blindati delle forze cinesi concentrati nello stadio di Shenzhen, a pochi chilometri dalla City in rivolta. E vittoriosa soprattutto perché ieri i centomila hanno ripreso a marciare fin sotto i palazzi del potere di Admiralty senza disordini, in modo civile e pacifico.
Era tutt’altro che scontato, dopo una settimana drammatica: il weekend precedente era finito con gli agenti che avevano saturato di gas e spray urticante una stazione della metropolitana e poi per due giorni, lunedì e martedì, l’aeroporto internazionale era stato bloccato da migliaia di contestatori in maglietta nera, elmetto da cantiere e mascherine sul volto. Durante l’occupazione del terminal l’ala più dura dei contestatori, quella che parla di «rivoluzione», aveva preso in ostaggio per alcune ore due cinesi ritenuti a torto provocatori: si è scoperto che uno era un reporter del Global Times, quotidiano nazionalista e comunista di Pechino, un avversario politico ma un professionista che faceva solo il suo lavoro.
Gli episodi di intolleranza aggressiva da parte della frangia pronta a rispondere alla polizia con violenza, la stanchezza della maggiorana silenziosa della città per il clima di lotta continua, l’insofferenza di larghi settori del potente business della City finanziaria hanno indebolito il consenso per il movimento.
Visto dall’alto ieri il centro di Hong Kong era coperto di ombrelli: sotto la pioggia un corteo lungo più di tre chilometri è partito dal Victoria Park e si è diretto verso Admiralty. Il concentramento nel parco era consentito, la marcia all’esterno era stata vietata per motivi di ordine pubblico. Ma nel pomeriggio tutti i campi da gioco del Victoria Park erano pieni, anche il grande prato centrale: a quel punto cercare di impedire alla folla di incolonnarsi nelle strade avrebbe provocato una battaglia. La polizia, sotto accusa per aver usato metodi brutali (sono stati contati 1.800 colpi di candelotti lacrimogeni in undici weekend), ha deciso di farsi da parte.
Finalmente di nuovo una grande manifestazione senza scontri diffusi in città, una mobilitazione civile che non offrirebbe pretesti d’intervento a Pechino. Per questo ieri gli organizzatori erano felici. Ma nessuna risposta positiva alle molte richieste dei dimostranti, allargate alla richiesta di inchiesta sulla polizia, dimissioni della governatrice, nuove elezioni a suffragio universale. Ogni giorno la crisi può sfuggire di mano.
Un sondaggio del Chinese University of Hong Kong Centre for Communication and Public Opinion ha rilevato che solo il 37% dei manifestanti pensa che i duri facciano bene a rispondere con la forza alle cariche della polizia. A luglio erano il 57% quelli che sostenevano l’ala più combattiva. È bassissimo anche il consenso per la governatrice Carrie Lam, che ha causato questa crisi cercando di far passare la legge illiberale e impopolare che avrebbe consentito l’estradizione di ricercati in Cina: solo 27 punti di gradimento su una scala da 0 a 100, rispetto ai 63 del marzo 2017, quando era stata designata Chief Executive, prima donna nella storia di Hong Kong.
Crollata anche la fiducia nella polizia: al 39% rispetto al 61% di maggio, prima della battaglia di Hong Kong.