Corriere della Sera, 19 agosto 2019
L’Italia divisa tra Barbari e Ottimati
E così abbiamo i Barbari in casa, almeno a quanto dice l’Italia per bene, educata e rispettosa di tutte le etichette, l’Italia degli Ottimati. La quale ha scoperto che accanto a lei ma assai diversa da lei vive un’altra Italia: un Paese maleducato, sudaticcio, incolto, ignaro di cosa siano il «bene pubblico», la Costituzione e la London School, un Paese che detesta Greta e le Ong, frequenta spiagge troppo affollate e che quindi proprio per questo vota Lega o anche 5 Stelle. L’Italia barbara, appunto. Personalmente vedo le cose in modo alquanto diverso. Ma se stanno davvero così allora però sorge inevitabilmente una domanda: mentre i «Barbari» cominciavano a dilagare, che cosa facevano gli altri, gli Ottimati? Quali battaglie ingaggiavano per proteggere la cittadella democratica? Quali difese approntavano? Non si direbbero particolarmente memorabili le prime né granché efficaci le seconde, visti i risultati. Viene insomma da pensare che parlare di «Barbari», evocando con tale parola l’idea di una forza selvaggia e soverchiante, di una spinta incontenibile, serva oggi ai suddetti Ottimati più che altro per nascondere la propria diserzione dal campo di battaglia: la propria incapacità divenuta oggettiva complicità con il nemico. L’invasione insomma poteva benissimo essere fermata. Bastava combattere. Capire quando bisognava farlo. Sarebbe bastato ad esempio fare delle riforme della scuola diverse da quelle approvate per tanti anni.
Al di là delle apparenze approvate da Destra e Sinistra insieme, entrambe convinte che la scuola dovesse servire alla società e a preparare al mercato del lavoro. Entrambe d’accordo nel riempirla di scartoffie e di burocrazia, di lavagne digitali, di famiglie saccenti, di democraticismi demagogici, di «successo formativo» obbligatorio, di circolari insulse in anglo-italiano. Per tenere lontano i «Barbari» forse sarebbe bastato a suo tempo lasciare nei programmi la storia e la geografia invece di ridurre entrambe ai minimi termini o di cancellarle del tutto. Forse sarebbe bastato insistere con qualche riassunto, con qualche mezzo canto della Divina Commedia mandato a memoria, con qualche ora di matematica in più e qualche gita scolastica a Barcellona in meno. E sarebbe bastato anche che qualcuno dei tanti intellettuali che oggi soltanto scoprono il disastro accaduto avessero impiegato un po’ di tempo a occuparsi della scuola del proprio Paese anche cinque o dieci anni fa, spingendosi magari, dio non voglia, fino a fare le bucce a qualche ministro dell’istruzione Pd. Peccato che agli Ottimati, ai Buoni per definizione, quel campo di battaglia però allora non interessasse, non si accorgessero di quanto lì stava accadendo.
Gli Ottimati, la classe dirigente italiana – quella com’è noto assolutamente ligia alle regole nonché sempre avvedutissima – non aveva tempo allora per certe cose. E così poi, per dirne un’altra ancora, mentre i «Barbari» crescevano e ad esempio riunivano le loro schiere sotto le bandiere del federalismo secessionista, del dileggio verso Roma ladrona e l’unità nazionale in nome del localismo filoborbonico e del «vaffa» alla casta e al Parlamento, anche stavolta l’attenzione degli Ottimati era rivolta altrove. A riformare il titolo V della Costituzione, ad esempio: come dire a fornire ai «Barbari» la migliore delle munizioni. E infatti adesso quelli, forti guarda un po’ proprio della riforma suddetta, pretendono di accrescere smisuratamente il proprio potere nei territori dove già comandano, mettendo le mani su tutto il possibile a cominciare dalla scuola, rifiutandosi di contribuire a qualunque spesa che non sia la loro, e così via barbareggiando.
Da tempo insomma l’onda nemica cresceva, ma gli Ottimati non si sa dove fossero e che cosa facessero. Avrebbero potuto, per dirne qualcuna, cercare di far pagare le tasse agli evasori, impedire che nelle carceri finissero solo i poveracci, cancellare l’obbrobrio correntizio del Csm, far diminuire di almeno un milione il debito invece di farlo crescere di continuo, avrebbero potuto assumere cento ispettori del lavoro (licenziando cento portaborse) per ripulire le campagne pugliesi e calabresi dai proprietari negrieri. Avrebbero potuto tentare mille cose per fermare la «barbarie» montante: chessò, inventarsi un programma anche minimo d’integrazione per gli immigrati, ridiscutere il trattato di Dublino – loro che sanno come si sta in Europa – oppure pensarci due volte prima di firmare il contratto di concessione con la società Autostrade, e magari, visto che c’erano, dare pure una controllata a qualche viadotto qua e là per la Penisola. Avrebbero potuto… Se lo avessero fatto oggi di sicuro ci sarebbe in giro qualche «barbaro» in meno.
Perché i barbari esistono davvero, sia chiaro, non vorrei che si pensasse il contrario. L’Italia sta effettivamente imbarbarendosi. Ciò che però mi sembra contrario alla verità è l’attribuzione di tale barbarie a una sola parte politica, alla solita Italia degli altri, all’Italia che «non ci piace». Inaccettabile è il gioco dello scaricabarile di cui la classe dirigente italiana è specialista da sempre, e che si sta ripetendo puntualmente anche questa volta chiamandosi fuori come al solito ogni volta che il Paese è costretto a fare i conti (che quasi sempre non tornano) con il proprio modo d’essere, con la propria storia.
L’Italia barbara esiste, ma è ben più vasta di questo o quell’elettorato. È il Paese che sta perdendo il senso delle regole e si sta abituando a violarle quasi tutte, che non ha più rispetto per ciò che è importante e degno, che non crede più nelle leggi e nella giustizia, che non ha più fiducia nell’autorità perché avverte la sostanziale mancanza di capacità di controllo da parte di quella cosa che un tempo si chiamava Stato. È il Paese che non legge, che passa le ore con lo smartphone in mano, che si sta convincendo che la politica sia qualcosa a metà tra una televendita e un’intervista di Barbara d’Urso. È l’Italia su cui gli Ottimati, in massima parte per la loro propria responsabilità, hanno perduto ogni egemonia, non sapendo dare a questa le nuove forme e i nuovi contenuti che dopo la grande frattura del 1992-94 sarebbero stati necessari. L’Italia di una classe dirigente che ancora si illude di poter dirigere qualcosa