Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  agosto 19 Lunedì calendario

Intervista a Pino Farinotti. Parla della rassegna cinematografica che vuole lanciare a Milano e della sua vita

«Avevano bisogno di un burocrate. Un funzionario. Spiacente, non è il mio lavoro. Io sono solo uno che scrive». E non avrebbe saputo fare altro nella vita, Pino Farinotti, che i suoi anni li ha spesi con la penna in mano. Poi l’ha chiusa in un cassetto quando sono nati i computer ma il vizio, o forse la passione, è rimasto lo stesso. E chi ama scrivere non può trasformarsi in contabile. O in amministratore. Così ha lasciato l’ultima carica, la presidenza di Lombardia film commission, dove era approdato con tante speranze e l’illusione di dare una sterzata al cinema. La facciata era seducente per uno che, al buio di una sala, era nato e vi aveva speso gli anni giovanili. Poi tutto è galoppato a gran velocità arrivando, forse prematuramente all’ultimo atto. In eredità lascia il progetto di un festival tutto milanese, dal budget più contenuto rispetto a quello elefantiaco di Venezia e Roma.
Di che cosa si tratta?
«È una rassegna dedicata alla creatività. Potranno concorrere soltanto film europei, come piace alla Ue».
E chi verrà premiato?
«Niente divi né attori o registi ma soltanto i valori. Etico. Estetico. Nuovi orizzonti. La moralità, insomma».
Quando si parte?
«Spero presto. Mi hanno assicurato che si farà. E io voglio crederci. Però le promesse dei politici le conosciamo...».
Che rapporto ha con loro?
«Mi ritengo un liberale molto aperto al dialogo. Non mi piace considerarmi anarchico».
E allora come si definirebbe?
«Diciamo che sono un apolitico di prospettive ampie. Cerco di stare nel mezzo e adoro capire le cose. Detesto ragionare per etichette».
Nella sua carriera di elettore che cosa c’è?
«La prima volta che sono entrato in una cabina ero piccolino. Con mio papà. L’ho visto votare Dc e mi ha condizionato per tutta la vita, però so guardare anche altrove».
Ad esempio?
«Ho votato Veltroni perché mi piaceva. Poi ho appoggiato Renzi perché mi sembrava propositivo ed è stato la più grande delusione della mia vita. Politicamente, s’intende».
Allora è vicino alla sinistra.
«Direi proprio di no. Ho dato fiducia al Pd ma non ho il pugno alzato. Affatto».
Pluralista e trasversale, quindi. A Milano ha lavorato con sindaci diversi.
«Letizia Moratti e Giuliano Pisapia non hanno propriamente la stessa impostazione ma con una ho collaborato in ambito culturale e l’altro ha appoggiato il progetto monumentale dei Giants in Milan. Alla fine sono semplicemente un tecnico».
La sua apertura globale l’ha portata ad avere un rapporto speciale con Matteo Salvini.
«L’ho conosciuto in circostanze davvero singolari. Un puro caso. Di quelli che si vedono solo al cinema».
Lo racconti.
«Ero al bar e stavo leggendo un giornale. Avevano pubblicato la mia rubrica con una fotografia che era finita di fianco a quella di Salvini».
Fin qui nulla di strano.
«Alzai gli occhi e me lo trovai davanti. Pensai a un’allucinazione ma a vincere fu lo stupore. Scusi esclamai. Sembrava di essere su Scherzi a parte».
E gli mostrò la pagina.
«Lui mi riconobbe. Ah, lei è Farinotti, quello del vocabolario del cinema. Glielo avevano appena regalato. Tutto è nato lì».
Che rapporto avete?
«Umano, direi. Non ho mai parlato di politica con lui ma di cose normali. Fatti di vita. Ricordi di quando era ragazzo. Il liceo Manzoni. Le compagne di studi alla Statale dove non si è laureato. Le sue passioni. E perché no, anche quelle che gli hanno dato buca».
Che opinione si è fatto di lui?
«È molto avveduto. Se l’indice di intelligenza si dimostra dal saper mettere in relazione fatti e persone, ebbene, è davvero bravo».
E diverso da come appare in tv?
«Molto differente. Più sottile e meno pop».
Farinotti leghista.
«Tutto questo al netto delle posizioni della Lega, sulle quali non mi pronuncio. Incrocio la politica e ho idee precise ma non amo esibirle quando scrivo».
A chi affidare il futuro, Salvini o Di Maio.
«Non mi dispiace nemmeno Giggino, devo confessare. A 31 anni tutta questa esperienza fa impressione».
Ma ai 5 stelle viene rivolta proprio la critica di essere neofiti...
«Si può discutere milioni di volte su tutto. A cominciare dalla loro ideologia. Non entro nel merito. Ma quando li si sente parlare non sembrano sprovveduti».
Se si andrà a votare bisognerà scegliere tra loro due.
«Non escludo che trovino una via d’uscita. E poi restano gli italiani. Meravigliosi. Capaci di uscire dalle secche peggiori con disinvoltura assoluta e totale».
Resta il ritratto di una politica pop. Le piace?
«Tanto. La sovraesposizione politica è divertente».
Perché?
«Almeno, se mentono, lo si distingue. Quando c’erano Forlani e Craxi scorreva tutto sottotraccia. Sotterraneamente. Non si capiva nulla. Oggi si sa tutto. Forse, anche troppo. Però è meglio».
Facciamo finta che Montecitorio sia un teatro. Salvini che attore è?
«Dotato. Quando parla, lo si ascolta. È normale seguirlo e immedesimarsi».
E Zingaretti?
«Altra roba. Non sarebbe una cattiva idea se si facesse consigliare da suo fratello».
È l’immagine del Pd.
«Sanno solo criticare chi è al governo. Le bocciature, radicali e assolute, sono sbagliate. Vorremo ammettere che su cento cose, uno ne avrà fatta almeno una giusta... Se non altro è la legge dei grandi numeri».
In Italia è così. L’opposizione deve far saltare chi guida. Non abbiamo la maturità di altri Paesi.
«Perseguendo l’assoluto del nemico idiota finisce che si fa il suo gioco».
Citando Salvini e abbandonando la politica, per tutti lei è «quello del dizionario». Come è nato «il Farinotti».
«All’epoca lavoravo in Rusconi. L’idea fu di Edilio. Era il 1980 e un giorno mi disse: Si può fare qualcosa che contenga tutti i film?».
Era possibile?
«Io ho fatto i conti. Il riferimento era l’Unione cattolica che li toccava tutti. Nacque una pubblicazione a dispense che ottenne un grande successo».
Quanti film vengono schedati.
«Tutti quelli usciti dall’1 gennaio al 31 dicembre, mediamente tra i 400 e i 500. Ogni volume ne contiene 40mila».
E oggi vanta decine di edizioni?
«Negli ultimi dieci anni lo ha stampato Newton Compton. Ora è terminato il contratto e stiamo valutando nuovi editori. Parlo al plurale perché, a dire la verità, chi se ne occupa adesso è mia figlia Rossella».
Lei si chiama fuori...
«Assolutamente. I giudizi li attribuisco io. È l’unica prerogativa che ho mantenuto».
E 5 stelle a chi le dà?
«A pochissimi. Diciamo, un paio all’anno. Non di più».
Chissà quante critiche e suggerimenti di correzioni.
«Succede. C’è stato chi, vedendo un titolo osannato dai recensori, mi ha detto che guardando il film si è annoiato a morte. Talvolta il contrario. Persone che si sono molto divertite e non si spiegavano la pagella troppo bassa».
Si scontenta sempre qualcuno.
«Il Farinotti è Dalla parte del pubblico e si sforza di non deludere ma mi piacerebbe fare i nomi di chi dà queste stellette. Però, attenzione, si tratta di persone molto competenti. Con una visione diversa. Politica».
Allude a Paolo Mereghetti?
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
Il Farinotti e Mymovies sono due facce di una stessa medaglia.
«Mymovies è nato nel 2000, l’ho ideato con Gianluca Guzzo che ne è l’anima, un talento eccezionale. Quando è entrato nel gruppo Espresso ho ceduto la mia quota azionaria».
Peccato.
«Resto il padre fondatore con l’unica firma riconosciuta in home page. Va bene così».
Un film è brutto quando...
«Forse quando ha una proposta estetica poco interessante. Significati sorpassati. È banale».
I valori etici non contano.
«Oggi questo pronunciamento non c’è più. Nessuno giudica da questa prospettiva. Ed esistono opere cattive di grande successo».
Un esempio.
«In assoluto non saprei. Forse è una pellicola italiana. Purtroppo».
Perché italiana?
«Eravamo i più bravi del mondo ma non lo siamo più. Anche se recentemente c’è stata una ripresa con Sorrentino, Guadagnino e via elencando. Tutti con importanti riconoscimenti. È in crisi il cinema».
Come il sistema cultura.
«E perfino la letteratura. Si legge poco perché c’è poco da leggere».
Che cosa è mancato?
«A casa nostra è sparito l’eroe che è un valore positivo. E io da critico vecchia maniera ne soffro. Il cinema è passione e, se non riesco a identificarmi nella storia, non sono capace di entusiasmarmi».
Ci sono i supereroi.
«Ma non sono la stessa cosa».
E gli antieroi.
«Pericolosi. Il cattivo è sempre più simpatico del buono».
Manca la poesia, insomma.
«Esistono codici inderogabili. I migranti che sono sempre migliori di noi. E altri ingredienti politico-sociali imprescindibili per i produttori che altrimenti non sganciano».
E i registi non lavorano.
«In una parola, manca la libertà».
Quante volte va al cinema?
«Pochissime. Non so neanche io il motivo. Non è più quello di una volta, semplicemente detto».
Innamorato del passato?
«Vero, sono un passatista. E di capolavori ne indico cinque. La grande illusione di Jean Renoir. È del ’37. Sembra fatto oggi. Viale del tramonto di Billy Wilder, non è un dramma né un fantasy ma è tutto. E non ha derivazione. Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, ha tutti i codici della cultura del ’900. Ladri di biciclette di Vittorio De Sica o Ossessione di Luchino Visconti. Inimitabili. Un americano a Parigi perché Gershwin è Gershwin».
Restano fuori in tanti. Da Fellini ai Coen passando per Kubrick e Woody Allen.
«Scelgo i fratelli Coen e Wim Wenders, il più grande artista del nostro tempo».
Definisca Woody Allen.
«Menomale che Woody c’è. Magari anche cantato».
E tra il libri... Ha un debole per «Il Grande Gatsby».
«Ho scritto il sequel. Non sopportavo di vederlo morire. Così mi sono inventato che dopo le ferite mortali era stato ricoverato e curato. E, una volta guarito, si era trasferito in Costa azzurra per ridare vita al mito».
Come è andato?
«Non lo hanno comprato neanche i parenti ma chi lo ha letto mi ha detto che sembrava scritto da Scott Fitzgerald. Grande complimento».
Passatista anche fra i libri?
«Faccio mie le parole di Vittorio Gassman in Io sono fotogenico. Quando si arriva a un certa età non si legge più, si rilegge».
A sua figlia che cosa faceva vedere quando era piccola?
«A 11 anni le ho mostrato Il dottor Zivago e le ho spiegato la rivoluzione russa. Il contesto letterario. Chi era Pasternak. E perfino Chaplin, visto che nel cast c’era Geraldine».
L’unica bambina che non sia cresciuta a pane e Bud Spencer?
«E nemmeno Tarantino. Però un giorno, da Venezia, le ho passato al telefono Stanley Donen che aveva appena vinto il Leone d’oro alla carriera. Il regista di Singin’ in the rain parlò mezz’ora con quella ragazzina e poi mi chiese: Ma come fa a sapere tutte queste cose. Ho risposto che aveva avuto un buon maestro».
Nel 2020 insegnerà allo Iulm.
«Terrò un corso sul rapporto tra il libro e il film, la mia specialità».
E cosa dirà ai suoi allievi?
«Dirò che ho sempre ragione. E sono giuste solo le mie idee. È una battuta, naturalmente. Ma chi non mi ama l’ha usata per attaccarmi».