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 2019  agosto 19 Lunedì calendario

Le vacanze di Amintore Fanfani: dai costumi di lana ascellari sfoggiati a Ostia, ai capi di Stato che pescavano trote a Camaldoli

Costume di lana, ascellare, ottocentesco, con le bretelle. «Era un modello alla Johnny Weissmuller, che però addosso a lui sembrava una salopette». Così vestito il presidente del Consiglio, nonostante le gambette corte, marciava a passo spedito sulla spiaggia di Ostia. Niente scorta, nessun accompagnatore, solo un bambino di cinque o sei anni che arrancava dietro e non stava mai zitto. «Smettila di parlare e cammina, mi diceva. Avevo altri sei fratelli ma io ero il cocco di papà». E già, negli anni cinquanta il primo ministro del boom economico e delle grandi riforme sociali amava passeggiare a petto in fuori davanti al Belsito, lo stabilimento di moda dell’epoca, dove a luglio prendeva una cabina. La gente spesso lo riconosceva e lui si fermava a chiacchierare. «Mio padre, con quell’abbigliamento strano, démodé, era davvero buffo ma anche molto popolare. Sorridevano per la sua tenuta da balneare, poi però lo incoraggiavano, gli stringevano la mano, talvolta gli davano persino una pacca sulle spalle».
Luglio al mare. Ad agosto invece tutti a Camaldoli, vicino Arezzo, in un casale preso in affitto dalla forestale quando era ministro dell’Agricoltura. Ettore Bernabei, vabbè, si sa, era una presenza fissa. «Il presidente della Rai si materializzava ogni sera, sempre alla stessa ora, anche la domenica, anche a Ferragosto, e faceva il suo rapporto dettagliato. Che cosa tramano Moro e Andreotti, come la pensano in Vaticano, che prepara l’opposizione, che novità da Washington e da Mosca. Era sempre da noi, infatti alla fine io ho sposato la figlia». Bernabei parlava, Fanfani lo ascoltava in silenzio, seduto davanti al cavalletto. Poi ecco i compagni di partito, Mariano Rumor, Emilio Colombo, Flaminio Piccoli, il delfino Arnaldo Forlani, e l’argomento diventava il rapporto di forze tra le litigiose correnti Dc. Veniva Giorgio La Pira, il sindaco di Firenze, e portava per un caffè il segretario di Stato Usa Adlai Stevenson. Spuntava Enrico Mattei e allora si parlava di energia, arabi, relazioni internazionali, misteri vari. Finché una volta a Camaldoli arrivò per pranzo una principessa africana e tutti rimasero a bocca aperta. «Era davvero bella. Nerissima, con quei capelli crespi e i vestiti sgargianti, i denti di un bianco scintillante, le collane, i sandali e lo smalto rosso fuoco sui piedi. Mio padre le chiedeva che si diceva laggiù dell’Italia di Fanfani, lei rispondeva a tono, io intanto zitto zitto mi ero infilato a quattro zampe sotto il tavolo. Volevo guardare quelle unghie da vicino».
Estati felici, spensierate, nonostante gli impegni di governo. «Un bel giorno – racconta Giorgio Fanfani – fece riempire il laghetto con 150 trote. Poi, quando veniva un invitato di riguardo, che ne so, un capo di Stato straniero o un rivale di partito, gli metteva una canna in mano. L’ospite pescava, si divertiva e, grazie a questo trucchetto, diventava subito ben disposto». Grande furbizia democristiana. Però una volta, sempre a proposito di pesci, fu lui a cadere in un tranello. «Quell’estate eravamo in una villa a Castelgandolfo. Papà non era previsto a cena, doveva far tardi a Palazzo Chigi per un decreto legge complicato, invece verso sera telefonò dicendo che era riuscito a liberarsi. La cuoca era disperata: la dispensa era vuota e non sapeva proprio che cosa cucinare. Finché non ebbe un colpo di genio. Prese con un retino un grosso pesce rosso dal vascone in giardino e lo preparò in guazzetto, con un filo di pomodoro». Amintore Fanfani lo trovò delizioso.
Il Rieccolo, lo ribattezzò Indro Montanelli. Giorgio Forattini lo disegnò come un tappo di sughero, per la sua altezza ma anche per l’inaffondabilità e la capacità di riemergere dalle sconfitte più rovinose, come il referendum sul divorzio. Tre volte presidente del Senato, cinque volte a Palazzo Chigi tra il 1954 e il 1987, due volte segretario della Democrazia Cristiana. E poi ministro degli Esteri, dell’Interno, del Bilancio. «Le sue – ricorda il figlio – erano vacanze per modo di dire. Spesso doveva ripartire all’improvviso e in certe occasioni portava anche me. L’automobile si trasformava in un vero ufficio viaggiante. Si sistemava sul sedile posteriore e spostava in avanti quello anteriore, così, grazie alla sua statura ridotta, aveva parecchio spazio per lavorare. Leggeva relazioni, scriveva discorsi, preparava interventi, buttava giù idee per nuove leggi». Ma ogni tanto riusciva a staccare e via, tutti in macchina. «Un anno, lui era presidente del Consiglio, decise di andare in Spagna. Imbarco la sera a Livorno, noi su un auto e una pattuglia di polizia su un’altra, sbarco in giorno successivo a Gibilterra. Abbiamo vagato per una settimana dall’Andalusia fino a Madrid». Sport zero, a parte le sgambatine sulla spiaggia e lo svago tipico dei democristiani dell’epoca, le bocce. «Però era molto attivo – ricorda il figlio – era un peperino che non stava mai fermo. Quando poteva, in vacanza suonava il pianoforte. Oppure dipingeva. Ha fatto ritratti a tutti noi e ai suoi ospiti estivi». Amintore Fanfani era infatti un pittore piuttosto quotato. Aveva imparato nella bottega del nonno Sebastiano, aveva frequentato la scuola d’arte di Pieve Santo Stefano, vicino Arezzo. E aveva stoffa. Nelle sue opere, secondo i critici, ci sono influenze di Carrà, Soffici, Casorati, i macchiaioli I pennelli e l’attività di governo, quasi una doppia vita. Qualche volta d’estate parlava di politica pure con i figli. Ad esempio, prima della batosta sul divorzio. «Una campagna tutta in salita – racconta Giorgio Fanfani – una battaglia dall’esito scontato. Papà lo sapeva benissimo. Ricorda lo slogan? Una valanga di sì vi sommergerà. Ebbene, lui diceva che per sommergerlo ne sarebbe bastata una manciatina, vista la sua altezza. Io gli chiedevo spiegazioni, non capivo perché aveva deciso di impegnarsi così in prima fila, se la sconfitta era certa. E lui mi rispondeva: non puoi essere un leader democristiano e tradire il tuo partito, non puoi essere cattolico e non essere fedele alla tua religione».