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 2019  agosto 19 Lunedì calendario

Il kamikaze che s’è fatto esplodere a un matrimonio a Kabul: 63 morti


S arà un passo verso la pace o un altro salto nell’orrore? A giudicare dagli oltre sessanta cadaveri dilaniati estratti dalle macerie della «Dubai Hall», la sala da matrimoni nella zona sciita di Kabul colpita ieri da un attentatore suicida, la seconda opzione sembra la più probabile. Alla pace non credono gli afghani e, forse, nemmeno Zalmay Khalilzad, l’inviato speciale originario di Mazar-i-Sharif, incaricato da Donald Trump di negoziare con i talebani per garantire il ritiro dei 14mila soldati americani presenti nel paese.
Il punto è proprio quello. Khalilzad non è stato incaricato di negoziare la pace, ma soltanto di rendere possibile quel ritiro. E questo per favorire la rielezione di un Presidente convinto che quella sia un’ottima carta da giocare nell’imminente campagna elettorale. Anche gli scarni dettagli sugli accordi raggiunti da Khalilzad e dalla controparte talebana dopo otto sessioni di colloqui in Qatar non sembrano favorire l’opzione pace. La parte centrale dell’accordo riguarda un «cessate il fuoco» che i talebani dovrebbero rispettare durante e dopo il ritiro delle truppe americane e di altri tremila soldati della Nato tra cui 900 militari italiani. Ma finito il ritiro che succederà? I talebani fin qui si sono rifiutati di dialogare con il governo di Kabul del presidente Ashraf Ghani impegnandosi soltanto a non permettere il ritorno di Al Qaida o di altri gruppi terroristici. Peccato che lo Stato Islamico, considerato il mandante dell’attentato alla Dubai Hall di Kabul, sia già assai attivo. Ma l’incognita principale riguarda proprio l’ eventuale negoziato tra talebani e governo di Kabul che dovrebbe portare, dopo il ritiro Usa, alla nascita di un esecutivo d’unità nazionale. Peccato che ad oggi i talebani governino i propri territori attraverso emiri islamisti e definiscano miscredente e traditore il regime nato sulla base delle regole democratiche «importate» dopo l’invasione americana del 2001.
Un altra non facile scommessa riguarda l’esercito chiamato a difendere quel governo. Da mesi le forze afghane perdono ogni giorno una quarantina fra soldati e poliziotti negli scontri con talebani e Stato Islamico. Questo ha innalzato il ritmo delle diserzioni che rischiano di trasformarsi in un’emorragia quando verrà ufficializzato il ritiro americano. Secondo una mappa realizzata dalla «Fondazione per la difesa della democrazia» i talebani controllano, già oggi, 66 distretti mentre nella metà dei 140 rimasti al governo centrale gli insorti minacciano le periferie dei centri urbani. 
Altro rebus è l’attendibilità della delegazione con cui ha negoziato Khalilzad. Il mullah Baradar che la guidava è il numero due del movimento capeggiato dal leader supremo Haibatullah Akhundzada, ma è anche un moderato tenuto prima in galera e poi in disparte da quei terminali occulti del movimento che fanno capo ai servizi segreti pakistani. Molti degli accordi raggiunti dal mullah Baradar potrebbero dunque venir disattesi. Per contro una disponibilità a rispettarli potrebbe favorire la trasmigrazione dei militanti più intransigenti verso lo Stato Islamico inserendo un’altra incognita nel futuro del paese. Insomma proprio mentre l’Afghanistan saluta il ritorno di Ahmad Massoud – il figlio 30enne di quel leone del Panshir ucciso da Al Qaida alla vigilia dell’11 settembre – l’insurrezione talebana sembra pronta a riprendersi il controllo del paese. Sotto gli occhi indifferenti di un’America pronta a tutto pur di mettere fine alla guerra più lunga e più inconcludente della propria storia.