il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2019
In Iran 253 persone sono state condannate a morte, 7 erano minorenni
Succede che le ragioni e le tensioni della geo-politica internazionale facciano velo alla percezione della realtà di un Paese: da un anno, l’Iran è nelle cronache quasi solo per l’abbandono dell’accordo sul nucleare da parte dell’America di Trump e per il ripristino delle sanzioni che ne condizionano l’economia; per le turbative alla navigazione nello stretto di Hormuz e per il sequestro di petroliere incrociato; e, ancora, per la contrapposizione con l’Arabia saudita per il predominio regionale, non solo politica e religiosa, ma anche militare, in Yemen.
Capita, poi, che un rapporto dell’Onu sul rispetto dei diritti umani ci ricordi che l’Iran riformatore del presidente Rohani vede crescere di anno in anno le violazioni della libertà d’espressione e non rispetta i diritti alla vita, alla libertà personale e a un equo giudizio. Le condanne a morte eseguite nel 2018 sono state 253 – sette di minori -, il numero più basso dal 2007, ma sempre uno dei più alti al mondo, dopo la Cina e confrontabile ‘pro capite’ con quello dell’Arabia saudita. Che sarà pure grande rivale – i sauditi sono gli alfieri dell’Islam sunnita, gli iraniani di quello sciita – ma che ha comportamenti non dissimili per il rispetto dei diritti dell’uomo e della parità di genere.
L’Onu spiega che la riduzione del numero delle esecuzioni rispetto al 2017 e agli anni precedenti è funzione dell’entrata in vigore di una nuova legge, che diminuisce le esecuzioni per i reati di droga, scese in un anno da 231 a 24. Impressionano, specialmente, le esecuzioni dei sette minori, fra cui due ragazzi di 17 anni condannati per stupro e rapina, reati “confessati sotto tortura”: l’Onu giudica “assolutamente proibita” l’esecuzione di minorenni e ne chiede “l’immediata sospensione”.
Il rapporto esprime preoccupazione perché l’Iran prevede oltre 80 reati punibili con la pena di morte fra cui corruzione, adulterio, omosessualità, possesso di droga, blasfemia, gli insulti al Profeta. L’Onu osserva che alcuni di questi reati ‘capitali’ in Iran non sono neppure punibili in altri Paesi e che non possono essere considerati ‘gravi’ in base ai principi sanciti da convenzioni internazionali. L’Iran arresta e detiene in modo arbitrario cittadini con doppia nazionalità. E i suoi procedimenti giudiziari lasciano a desiderare, con prove artefatte e confessioni estorte, almeno dal punto di vista del rispetto dei criteri d’equità e dei diritti della difesa, oltre che delle minoranze etniche o religiose. Anzi, spesso chi tutela i diritti degli accusati e delle minoranze e i giornalisti che praticano la libertà d’espressione sono oggetto di intimidazioni e finiscono a loro volta sotto processo. Proprio ieri, Human Rights Watch ha chiesto al governo iraniano di rilasciare le donne arrestate perché accusate di essere entrate illegalmente in uno stadio il 13 agosto indossando abiti maschili: volevano assistere a una partita di calcio, un divieto non scritto ma rigorosamente applicato. Fra le arrestate, ci sono l’attivista per i diritti umani Zahra Khoshnavaz, che si batte per abolire il divieto, e la foto-giornalista Forough Alaei.
Questo sfondo fa sbiadire l’attualità internazionale delle ultime ore: gli Stati Uniti cercano d’ottenere che la Gran Bretagna sequestri di nuovo la petroliera iraniana fermata a Gibilterra e poi dissequestrata; Washington sostiene che trasportasse petrolio in Siria, illecitamente. E l’Iran protesta e non sblocca la petroliera britannica sequestrata per ritorsione.