il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2019
Intervista a Mimmo D’Alessandro, manager e promoter dei grandi artisti
La nemesi (senza vendetta) di Manuel Fantoni in Borotalco sembra concretizzarsi in Mimmo D’Alessandro. Se il seduttore interpretato da Carlo Verdone millantava amicizie importanti nel mondo dello spettacolo per ottenere fascino e considerazione, Mimmo D’Alessandro quei rapporti li ha costruiti nei decenni, non visti di sfuggita, ma vissuti con intensità e confidenza, viaggi e approdi, spettacoli e tournée, cene e capricci, migliaia di dollari pretesi in contanti dalle star, il rischio dell’imprevisto, un proprio spazio conquistato dietro il palco. Insieme con il socio Adolfo Galli, è uno dei più grandi organizzatori di concerti ed eventi in Italia: dai Rolling Stones a Elton John, da Joe Cocker a James Brown. E tutto dopo un viaggio sola andata “a diciassette anni da Napoli, destinazione Viareggio, senza una lira, un paio di calzini da lavare la sera per averli puliti al mattino, e non ho neanche completato gli studi”.
Mimmo D’Alessandro è consapevole di se stesso, si reputa fortunato e arrogante, “più arrogante”, come chi le suole delle scarpe le ha consumate, e in vacanza non è mai andato (“Ho associato i viaggi a motivi di lavoro”).
Lui ha condiviso intere settimane accanto a uno dei geni del jazz, Miles Davis, e sono esattamente sessant’anni da Kind of Blue, album fondamentale per la storia della musica moderna.
Chi era Miles Davis?
La persona più bella e introversa mai incontrata nella mia vita: un uomo contraddittorio, umorale, imprevedibile, con accenti da ragazzino.
Viziato?
Non proprio, ma c’è una fase dell’esistenza nella quale ti senti immortale, e una successiva nella quale tenti di restare immortale attraverso piccoli vezzi.
Esempio.
Miles era gravemente diabetico, eppure fissato con il gelato. Un giorno insiste oltre il lecito, e alla fine conquista un cono: il batterista lo vede con in mano quella bomba di zuccheri, sbianca, corre e gli strappa di mano il “rischio”. Lui impazzisce.
E poi?
Aveva una grande passione per la pittura, e dipingeva ovunque. Io pagavo i danni.
Tradotto?
Sporcava le pareti delle stanze d’albergo, e il giorno dopo ricevevo la telefonata del direttore, oppure passavo dal portiere e saldavo per anticipare le lamentele.
Con “Dune mosse” ha creato la collaborazione tra Zucchero e Davis.
Per quel pezzo ho rischiato la carriera.
Addirittura.
Atterro a New York con il materiale inciso da Zucchero, dovevo portarlo a Miles; salgo in taxi, scendo in albergo, e dimentico sul sedile posteriore il master. Panico. Il portiere non allevia le pene: “Mister, sa quanti taxi ci sono in città? Circa ventimila”.
Insomma…
Vado alla polizia, e quelli scocciati rispondono: “Da noi deve entrare solo se c’è il morto”. Mi sentivo un cretino; ultima chance “l’ufficio oggetti smarriti”, con una signora enorme che decide di mettere il carico: “Se era così importante, non dovevi perderlo”.
Quindi?
Mi arrendo e confesso il malfatto al manager di Davis, lui mi tranquillizza, nel frattempo trovo un investigatore privato che capisce il dramma: era malato di Miles. E risolve il problema e mi salva.
Lei ha sangue freddo.
Di base sì, poi ho imparato.
Una sua dote.
La determinazione, poi amo questa professione alla follia, senza non potrei vivere.
Ha dichiarato: “Il mio è il lavoro più bello del mondo”.
Era così. E sono nato in una famiglia di contadini senza grandi possibilità economiche, tanto da non avere le risorse per mantenermi gli studi.
Però…
Sono uscito da quella condizione perché sapevo ciò che volevo, e il mio sogno era la Versilia, La Bussola, poter lavorare con Sergio Bernardini (organizzatore di eventi e proprietario del locale).
Come arriva alla musica?
Napoli stessa è musica, era ed è normale nascere e crescere con il ritmo; è ovunque e tutti i miei amici suonavano, e quando ero ragazzo iniziavano a emergere grandi artisti come James Senese, Enzo Avitabile e lo stesso Pino Daniele. Con Enzo ho un bellissimo rapporto.
Li conosceva.
Certo, poi anche io avevo tentato con la chitarra, ma non ero a quel livello, così ho cambiato strada e sono partito a 17 anni.
Da solo?
Sì, e i miei genitori disperati.
Come è arrivato a Bernardini?
Mi piazzavo fuori dal locale e sbirciavo, poi piano piano ho conosciuto i camerieri e via così.
Prima ha detto “era il lavoro più bello del mondo”.
Perché fino a pochi anni fa era possibile un contatto diretto con l’artista, condividere con loro, crescere insieme; con Sarah Vaughan abbiamo girato l’Italia in macchina per raggiungere le tappe della tournée, con lei che controllava in continuazione il contachilometri, “non superare i 110!”, e io disperato perché mangiava aglio tutto il giorno; poi a ogni tappa si fermava, entrava nei negozi, acquistava in dollari e pretendeva il resto in lire.
Insomma, oggi?
Gli artisti sono circondati da pletore di avvocati e manager, sono diventati irraggiungibili, e quando devi concludere un contratto, ti trovi davanti tomi di carte, 300 o 400 pagine, mentre una volta erano un paio di foglietti e una stretta di mano. (ci pensa) La colpa è nostra che abbiamo concesso tutto questo.
Prima regola per stare accanto a un artista.
Dargli tutto quello che desidera. Se Sarah Vaughan voleva i “110”, io andavo a 110, se poi in albergo desiderava gli asciugamani con un fiore particolare, io mi ingegnavo e ci riuscivo; bastava conoscere le loro esigenze, e per questo è fondamentale il contatto diretto.
Ha lavorato per 14 anni con Giorgia.
Con lei sono stato manager e produttore, ed è una delle più belle voci al mondo, una delle prime cinque; può cantare tutto e chiunque, una professionista vera: più di una volta l’ho vista entrare in studio sofferente per l’estrema concentrazione, avvolta da una rabbia spaventosa, eppure indovinare il pezzo al primo tentativo.
Giorgia è celebre per la paura dell’aereo.
Ed è stato un limite, ma quando era necessario, ci saliva, non mollava come nel tour con Herbie Hancock. Herbie era impazzito per lei.
Non solo Hancock…
Anche Ray Charles, mito di Giorgia: il padre l’ha chiamata così proprio in onore di uno dei più celebri brani di Ray.
E…
Sono saliti insieme sul palco del Summer Festival di Lucca, eppure all’inizio Ray era incerto, non amava i duetti, ma quando li ho presentati, lui le ha preso il polso, lo ha stretto, le ha chiesto la tonalità per provare il brano, ha ascoltato la sua voce e ha sorriso. Ray non era un tipo facile.
Quanto complicato?
Non ci pensava due secondi a mandarti a quel paese.
Con quale artista non si è trovato?
In realtà con nessuno, nonostante alcune difficoltà. Con Elton John, anche lui celebre per delle bizzarrie, lavoro da trenta e passa anni.
Gli artisti, sono…
Persone di una grandissima fragilità.
Veramente ha assecondato tutto?
Un anno organizzo un tour a tre: Joe Cocker, Davis e Zucchero: prima tappa a Rimini e conferenza stampa di rito per presentare la tournée. Miles si rifiuta. Corro dal suo manager, e mi offre la soluzione: “Mimmo, portagli in albergo ventimila dollari in contanti, poi te li rendo”.
E lei?
Ho seguito il consiglio e ha funzionato.
Restituiti?
Sì, in tutte le situazioni l’importante è trovare la “chiave” giusta.
Sempre.
Un’altra volta, concerto di James Brown a La Bussola domani, ottengo la diretta su Rai2. James arriva in albergo e sibila: “Non voglio telecamere”. E io: “Hai un contratto”. “Fanculo Mimmo”.
Soluzione?
Insisto: “Cosa vuoi?”. “Fammi parlare con il Papa”.
Semplicissimo.
Alla fine mi chiede 500mila dollari in più.
Sempre soldi.
Spesso era il lasciapassare con i musicisti di colore, forse per la comune provenienza dai ghetti; comunque per chiudere la vicenda gli ho consegnato altri 30mila dollari in contanti.
Poi, la sera…
Normalmente pretendeva una lunga serie di annunci: “Signore e signori, ecco a voi il più grande, il migliore…” e altri aggettivi, la tensione altissima, poi nulla. Non saliva sul palco. E anche per cinque volte consecutive; lui nel frattempo suonava nei camerini e attendeva di percepire il giusto clima emotivo.
Pure la sera della diretta?
Eccome. Ma James era terrorizzato dalla mafia e dalla polizia, così l’ho raggiunto dietro le quinte e gli ho spiegato: “Hai preso i soldi, se non canti chiamo le guardie”.
E lui?
Inizia a piangere, poi rassegnato mi guarda: “Va bene, ma prima portami una pizza”. A quel punto il direttore di palco si fionda fuori dal teatro, prende il motorino e corre nell’unico posto aperto. Acquista. Torna. James guarda il cartone, lo apre e la fa assaggiare alla moglie: temeva fosse avvelenata.
Un signore.
Amava i capricci, dava la mano se aveva il guanto a protezione, a volte era convinto di essere bianco, e per questo si stirava i capelli.
I musicisti di colore erano così attaccati ai soldi…
Davanti al cash crollavano; una sera ho Ray Charles sul palco per una trasmissione con Minà: Gianni doveva arrivare da Milano ma era in ritardo di un’ora e mezza; a un certo punto Ray sbrocca, s’incazza veramente tanto, mi chiama e decide: “Voglio 10mila dollari per ogni dieci minuti di attesa”.
Lei dopo tanti anni in Toscana ha sempre un leggero accento partenopeo.
Un napoletano non lo perde mai.
E l’hanno mai guardata male per questa inflessione?
Capita ancora oggi, e ovviamente l’accento sottintende tutta una serie di declinazioni negative, dall’imbroglione al terrone.
A Napoli torna?
La mia famiglia è ancora lì, e quasi tutte le domeniche sono al San Paolo per la partita.
Lei e la musica napoletana.
Per quasi cinque anni sono stato il manager di Pino Daniele. Una fortuna. Con lui ho vissuto il periodo della colonna sonora di Pensavo fosse amore e invece era un calesse, la nascita di un capolavoro come Quando, e spesso frequentavamo Massimo Troisi.
Insieme a quei due…
Con Massimo e Pino in auto verso Milano, a metà percorso ho inchiodato la macchina e mi sono fermato a lato della carreggiata: stavo male per le risate, non ne potevo più dal dolore ai reni. (cambia tono) Pensare che sono morti per il cuore, e tutti noi credevamo che il malato fosse Pino…
Mentre Troisi.
Non avevamo capito, lui non diceva nulla: il suo addio è stato uno choc.
Pino Daniele.
Un uomo difficile, non amava il confronto, voleva il controllo totale e la sua parola era il verbo; però era Pino Daniele, un mostro di bravura, è stato lui ad aver sdoganato la musica napoletana.
Droga e alcool quanto sono presenti nel suo mondo?
Oggi zero. Oggi sono tutti salutisti, vogliono mangiare prima del concerto, hanno una dieta dedicata, al massimo può saltar fuori una canna.
Prima?
Non era proprio così (e sorride).
Come Joe Cocker.
No, la sua droga era la birra: in un viaggio da Rimini a Viareggio, su un aereo privato, è riuscito a ingurgitarne 17; mentre Mick Jagger è attento a ogni aspetto.
Un momento di grande emozione.
I Pink Floyd con il Live at Pompeii: mi rivedo ancora nella Palestra dei gladiatori, attonito e con un bicchiere di vino in mano, mentre penso: “Non posso più pretendere nulla dalla vita”; poco dopo ho visto David Gilmour piangere, commosso, nel camerino.
Successo internazionale.
Per ottenere quella serata ho lavorato per un anno e mezzo, e tutte le settimane partivo da Viareggio per passare lì due giorni e trovare soluzioni per ogni problema; a Pompei ho capito come duemilacinquecento anni fa erano avanti a noi: l’arena aveva già le uscite di sicurezza.
Lei in sostanza, cosa fa?
Creo e vendo emozioni.
Ha mai temuto il flop?
Il mio è un perenne gioco d’azzardo, ma sono fortunato e arrogante. Anzi, più arrogante che fortunato. Gli eventi li studio, li valuto e li preparo con molta attenzione, come per i Rolling Stones al Circo Massimo di Roma, con 74mila biglietti staccati e una richiesta pari al doppio.
Li ha portati anche a Lucca.
54mila i presenti e richieste per circa 200mila tagliandi. Per convincere Mick e gli altri ci ho messo tre anni, li ho inseguiti per l’America, dall’Argentina a Cuba: ero diventato una sorta di stalker.
Chi comanda negli Stones?
Mick è il leader assoluto.
Chi l’ha stupita?
Stevie Wonder: una sera, dopo un concerto, ha continuato a suonare nei camerini e per un gruppo di non vedenti: è andato avanti fino alle tre e mezzo della notte. Non finiva più. Ecco, tutto questo non potrà mai più accadere.
Ne è proprio certo?
Purtroppo sì, la questione è sempre quella del contatto umano: abbiamo ridotto tutto a una serie infinita di cavilli.
(E come cantano i Pink Floyd in Wish You Were Here, c’è chi ha “scambiato un ruolo di comparsa nella guerra con il ruolo da protagonista in una gabbia”).