Robinson, 18 agosto 2019
Intervista a Tito Gotti
Esattamente 41 anni fa un pazzo e un visionario progettarono qualcosa che nell’Italia della fine degli anni Settanta sembrò uno scherzo. Uno scherzo musicale, intendiamoci, simile a una provocazione che stupì, irritò e divise l’opinione del mondo musicale di allora: era il “Treno di John Cage”. Il musicologo Fedele D’Amico parlò di una buffonata. In realtà fu l’ultimo approdo della grande sperimentazione musicale, portata avanti da quel genio americano che aveva riempito il rumore e il silenzio di nuovi contenuti. A farsi venire l’idea fu Tito Gotti, un nome da baritono, o da attore stentoreo e declamante, in realtà appassionato e raffinatissimo musicologo e direttore d’orchestra, che vado a trovare a Bologna. Quasi novantenne, con una simpatica moglie parigina, Gotti – nessuna parentela con il boss americano – sorprende per l’eloquio inarrestabile, come se la testa traboccasse di ricordi e di deviazioni, di quei perduti innamoramenti che tornano impetuosi sotto forma di parole.
Più che parlare, caro maestro, lei stenografa.
«Mi è stato sempre rimproverato un certo modo ellittico di esprimermi. Veloce nel pensiero e nelle associazioni mentali. Non so se sia più un difetto o un pregio».
È sempre stato così?
«Sempre, fin da bambino, quando per darmi un ordine o meglio una disciplina mentale imparavo a memoria gli orari ferroviari di tutta Europa».
Non ci posso credere.
«I treni erano il mio mondo. Subivo un’attrazione irresistibile. Mi aggiravo per le stazioni, tra i binari, in attesa del loro arrivo o della loro partenza. La notte prima di coricarmi mi informavo. Sapevo tutto delle reti ferroviarie: gli scambi, i tempi, gli orari: Roma-Parigi; Bruxelles-Stoccarda; Milano-Belgrado.
Desideravo crescere in quella ragnatela di numeri e di città che immaginavo bellissime. Mi dissi che da grande avrei fatto il facchino».
Il facchino?
«C’era una cooperativa del socialismo emiliano dove andavo ad ascoltare i racconti di certi facchini ormai in pensione. Aspiravo al compito più basso, faticoso ma defilato e pur sempre in grado di farmi godere dei rumori dei treni, del brulichio delle persone che si agitano per partire o per arrivare. Si esalta la letteratura di viaggio e si ignora il luogo per eccellenza dove essa nasce».
Lei è un bel mattocchio. Un suo conterraneo, Ermanno Cavazzoni, avrebbe potuto inserirla nella sua galleria di strambi.
«Ci sarei stato alla perfezione».
In famiglia cosa dicevano?
«Attesero che passasse la sbornia ferroviaria. Nel frattempo studiavo. Mi diplomai in conservatorio, dopotutto venivo da una famiglia che era stata ricca e che le traversie della vita gettarono nella più nera miseria».
Cosa accadde?
«Mio padre era un industriale del tabacco. Il nonno, agronomo, era riuscito nei primi anni del novecento ad acclimatare le foglie del Virginia e del Kentucky.
Fu la nostra fortuna. Poi, come le dicevo, il crack aziendale negli anni Cinquanta. Perdemmo tutto. Io e mio fratello gestimmo il fallimento. Tenemmo fuori dalle beghe finanziarie le altre due sorelle».
E suo padre?
«Morì poco tempo dopo di crepacuore. Gli ultimi giorni della sua vita furono splendidi. In contrasto con tutto quello che si era abbattuto su di noi. Alla sua morte seguì quella di mia madre. Non avevo più legami né radici, né interessi da difendere. Avevo un diploma e, grazie a una borsa di studio andai a Vienna nel 1958. Vi restai tre anni a perfezionarmi con Hans Swarowsky che era stato allievo di Schönberg e compagno di studi di Alban Berg. Swarowsky era il figlio illegittimo del cugino dell’imperatore. Fu un uomo di grandissimo talento. Dalla sua scuola sono usciti direttori come Claudio Abbado, Zubin Metha, Giuseppe Sinopoli, Daniel Baremboim».
Vi frequentavate?
«Con Claudio e Zubin ci si vedeva spessissimo. Vienna era una città immensamente pettegola, e nel suo splendore da operetta, a me appariva come il necessario risarcimento al severo rigore dodecafonico. Quel periodo fu molto istruttivo quando tornai a Bologna, dopo un periodo trascorso tra Venezia, Roma e Salisburgo, cominciai a dirigere per poi affiancare l’attività concertistica all’insegnamento nel conservatorio di Bologna, dove era stato il mio maestro Adone Zecchi».
A Bologna lei realizza le “Feste musicali”. Che cos’erano?
«Furono degli eventi per fare uscire la musica dai luoghi convenzionali. La città divenne un grande palcoscenico attraversata da un vento nuovo. Si scompigliavano i generi. Si riusciva a mescolare la musica classica con quella contemporanea. Ricordo l’anno in cui Bruno Maderna, grazie al vincolo di amicizia che mi legava a lui, portò l’Yperion e contemporaneamente lavorò sulla partitura secentesca dell’Orfeo dolente. Il tutto eseguito nei cortili barocchi della città. Era il 1968. Le “Feste” erano nate l’anno prima e si sarebbero protratte per tantissimi anni».
Erano anche un modo di stare dentro lo spirito di quei tempi?
«È indiscutibile che tutta l’impaginazione di quegli eventi tenesse conto di quello che stava accadendo.
L’idea stessa di festa suggeriva quel cambiamento che Ezio Raimondi definì “gioiosa anarchia”, grazie alla quale furono smontate antiche gerarchie e proposte nuove forme di accostamento alla musica, senza la rigidità ideologica che aveva contrassegnato la musica dopo Darmstadt. Non avrei realizzato nulla di tutto questo senza l’appoggio di Carlo Maria Badini – per anni sovrintendente al teatro comunale – Luigi Tagliavini, meraviglioso organista, Marcello Panni, compositore e direttore d’orchestra e un personaggio straordinario quale fu Enzo Melandri».
Ha conosciuto bene Melandri?
«Non si poteva non conoscere nella Bologna di quegli anni. Nel 1968 era uscito il suo La linea e il circolo, un libro che chi lo lesse allora lo definì un capolavoro filosofico. Non ero ovviamente in grado di giudicarne la profondità, ma Enzo mi aiutò nei miei happening, anche in quello che passò alla storia come “il treno di Cage”. Passammo intere notti a bere e a studiare».
Tra le Feste musicali quella dedicata a Cage è la più famosa.
«Se non altro è la più originale. E fu anche il modo, forse strambo, per recuperare la mia vecchia passione».
Come avvenne il contatto e poi l’incontro con John Cage?
«Mi feci precedere da una telefonata. Poi, con Marcello Panni gli scrivemmo una lettera, nella quale illustravamo la possibilità di un viaggio in treno, molto particolare, in cui lui avrebbe avuto un ruolo fondamentale. Spiegammo insomma il progetto, ci rispose che gli piaceva, ma che in quel momento era malato».
Cosa aveva?
«Un problema agli occhi. Passò qualche mese e Cage venne a Milano a eseguire Empty Words, un’opera fluviale di cui fece solo la terza parte. Andai ad ascoltarlo al Lirico. Stracolmo di giovani. Era il 1977. Si sentivano dei suoni, apparentemente casuali, e un testo basato su uno scritto di Thoreau che Cage cominciò a leggere. Il pubblico cominciò a rumoreggiare e a protestare. Un gruppo di giovani salì sul palco cercando di disturbare il suo lavoro. Cage restò impassibile. E lì capii all’istante il genio di questo compositore. La sua imperturbabilità aveva dato un tocco magico a quell’happening. E infatti tutto finì in un fragoroso applauso».
Vi vedeste?
«Mi diede appuntamento in un albergo di Lambrate e in un paio di giorni mettemmo a punto il progetto del treno».
Un treno musicale?
«Un treno che era anche uno strumento musicale.
Ideammo un percorso scandito in tre giorni durante i quali il treno si sarebbe mosso sulla linea Bologna-Porretta; Bologna-Ravenna e infine Ravenna-Rimini. E così andò, senza intoppi».
Chi c’era sul treno?
«Oltre Cage e me c’erano un paio di suoi allievi che avevano registrato musica elettronica; c’era Marcello Panni e perfino un coro verdiano. Ricordo la presenza di Demetrio Stratos che con la sua straordinaria voce evocava suoni tibetani; c’erano tecnici del suono, musicisti improvvisati, più altra gente. Alle stazioni ci attendevano bande musicali, artisti, persone incuriosite dall’evento».
Qual era, ammesso che ci fosse, il senso della cosa?
«Dare un significato completamente nuovo alla musica. La musica era quella stessa del treno, dei suoi rumori, del suo sferragliamento, delle frenate e delle accelerazioni. Il tutto grazie anche alle amplificazioni dei microfoni. Cage aveva dato come sottotitolo : “Alla ricerca del suono perduto”. Ed era evidente l’allusione al silenzio, cioè a uno dei suoi temi preferiti».
Fu insomma una provocazione.
«Qualcosa di più e di diverso. Lei chiamerebbe semplicemente provocazione il “ready made” di Duchamp? La provocazione è il primo modo di reagire a qualcosa che fino a quel momento nessuno aveva mai visto. Poi diventò storia. Un pezzo leggendario della storia bolognese».
C’erano stati esempi precedenti di treni musicali?
«Degli anni Venti è il treno di Arthur Honnegger. Il compositore celebrò il transcontinentale “Pacific 231”, poi ci fu il treno per Chatanooga di Glen Miller, perfino Duke Ellington si occupò di treni con la sua musica, per non parlare dei convogli durante la grande depressione, con il loro corredo di disperati e annessi banjo, chitarre e trombe. Ma il treno di Cage fu un’altra cosa. Le carrozze progettate da Guido Corbellini e costruite subito dopo la guerra, carrozze di terza classe, si prestarono perfettamente a diventare esse stesse l’ambiente che creava nuove sonorità».
In che anno avvenne?
«Nel giugno del 1978. L’anno prima Bologna aveva conosciuto un momento di straordinaria vitalità.
Contraddittoria e impetuosa. C’era il femminismo, c’erano i fumetti di Scozzari e i disegni di Pazienza.
C’era le repressione e c’erano gli intellettuali che da tutta Europa giunsero qui per denunciarla».
Fu come un grande carnevale finito nella nebbia.
«Con i suoi cantori: Pietro Camporesi e Gianni Celati, su tutti. Ma che cosa posso dire? Quell’anno così folle e imprevedibile generò il nostro treno. Nessuno allora avrebbe immaginato che soltanto due anni dopo Bologna sarebbe stata inondata di sangue e che quella stazione con i suoi treni avrebbe prodotto rumori molto più sinistri e drammatici».
L’arte superata dalla violenza?
«L’arte è sempre esposta alla violenza. Essa stessa, in certi casi, si veste del gesto violento. Ma chi è dopotutto l’artista? È un individuo il cui passaggio modifica, anche di poco, i valori di quel mondo. Le convinzioni. Mi chiedeva di Darmstadt, che fu il fortino dell’avanguardia musicale. Ebbene, ricordo il suo terrorismo musicale e la frustrazione di coloro che non si rassegnavano a sposarne i principi e ricordo, proprio nel 1958, la faccia bella, serena, incorniciata da una barba socratica, di John Cage che di fronte a quelle forme di imposizione rivendicava la libertà di ascoltare un rubinetto che gocciola».
E quel rubinetto ha cambiato la percezione di certi valori musicali?
«Direbbe che Rauschenberg – l’artista che sento più vicino a Cage – ha cambiato con le sue opere la percezione della pittura? Credo di sì. Cage in italiano vuol dire gabbia. E lui ha perfino contraddetto il suo nome, ha fatto di tutto per rompere gli schemi mentali, e psichici che lo ingabbiavano».