Robinson, 18 agosto 2019
Chi era Jeremy Bentham
Cavour teneva un diario in cui gli episodi personali – pene d’amore, incombenze quotidiane, viaggi – si alternano a questioni teoriche. Con disarmante sincerità descrive quello che lo appassiona e quello che lo avvilisce; soprattutto, da vero lettore, ha l’abitudine di prendere nota di quel che legge, di trascrivere passaggi tratti dagli autori che lo avevano colpito. Negli ultimi giorni di luglio del 1834 sta leggendo Benjamin Constant e ne copia alcuni brani sui benefici sociali della religione; da laico, ne intravede l’utilità e, trascinato dall’entusiasmo, annota in margine con la sua grafia frettolosa: Chiappa lì, Bentham, à l’è par ti.
( Beccati questo, Bentham, è per te.) Nel 1834 Jeremy Bentham è morto da un paio d’anni. Cavour non sta parlando all’uomo in carne e ossa, è un lettore che risponde al richiamo del testo. Leggere bene – è George Steiner a ricordarcelo – significa essere letti da ciò che leggiamo. La lettura implica sempre una risposta. Sollecita una reazione. Succede a ciascuno di noi quando ci immergiamo nel contesto (e nel testo). Spazio e tempo non esistono più. Se per Cavour Bentham è così vivo da meritarsi il dialetto, per me, lettrice del 2019, quelle parole scritte nel 1834 sono altrettanto vive. Quello che mi seduce nel Chiappa lì, Bentham è la percezione, come dice Steiner, che in ogni atto di lettura è insito, in modo più o meno latente, l’impulso di scrivere qualcosa in risposta. Ogni lettura è, prima di tutto, dialogo.
Bentham l’avevo già incrociato. Non come fondatore della Westminster Review, lettura costante e formativa di Cavour, né come padre dell’Utilitarismo. L’avevo visto in una vetrina di mogano lucido, nell’atrio dell’University College, a Londra, dove studenti e turisti si fanno fotografare accanto al teorico di un’aritmetica morale da applicarsi alle società. L’uomo che si è interessato di legislazione internazionale, che si è battuto per la depenalizzazione dell’omosessualità e i diritti degli animali, che ha teorizzato una giustificazione utilitaristica come base per un sistema autenticamente democratico, se ne sta lì impagliato come una mangusta. Dopo aver messo a punto un sistema in cui piaceri ed egoismi siano calcolati per garantire il maggior grado di felicità possibile al maggior numero di individui, sentendosi invecchiare lascia nel testamento istruzioni dettagliate. Vuol essere sezionato in pubblico, alla presenza degli studenti. Intende essere utile all’umanità tanto da vivo quanto da morto, studiato dai discepoli non solo nel corpus dei suoi scritti ma anche fisicamente, grazie al bisturi. Inoltre, mette nero su bianco che, una volta eseguita l’autopsia, il suo corpo sia imbottito di fiocchi di cotone, paglia e lavanda essiccata ( contro le tarme). Chiede di essere rivestito dei suoi abiti e sistemato nella poltrona in cui siede abitualmente. Inventa anche un nome per il trofeo di se stesso: auto- icon. Ci penso mentre guardo gli studenti scattarsi selfie accanto a lui. Un altro genere di auto- icon, ma concettualmente siamo da quelle parti.
In italiano auto- icona suona peggio che in inglese e non ha attecchito – a differenza di altri lemmi più fortunati, sempre di Bentham, come international, percentage, panopticon, codification.
Peraltro, il tentativo di conservare la testa non riesce del tutto. Quando i tratti bonari di Bentham assumono colorazioni inquietanti, si provvede a modellare una testa di cera, massima preoccupazione la somiglianza. Bentham doveva averlo previsto, perché anni prima aveva comprato due occhi di vetro dello stesso azzurro dei suoi e li teneva sempre in tasca (pare che ci giocasse nei momenti di riflessione). La testa vera, vagamente spaventevole, gliel’hanno sistemata tra i piedi, presenza più surreale che macabra, oggetto di bizzarre peripezie – rubata da un gruppo di studenti, restituita dopo il pagamento di un riscatto di dieci sterline e sottratta – si dice – almeno un’altra volta per essere ritrovata in un deposito bagagli ad Aberdeen.
All’University College questo esemplare di tassidermia umana – o comunque si chiami la figura accanto a cui anch’io mi sono fatta fotografare – arriva nel 1849. Bentham non è uno dei fondatori, ma l’idea di dotare Londra di un ateneo laico, aperto agli studenti di ogni classe sociale, religione ed etnia, in cui siano ammesse le donne, è figlia anche del suo pensiero apertamente riformatore – e infatti ne sottoscrisse la fondazione nel 1826. In polemica con la rigida ( e classista) tradizione di Oxford e Cambridge. Fare di sé un auto- icon non può essere letto solo come il gesto di un uomo abbastanza stravagante da dare un nome al suo bastone da passeggio ( Dapple) e alla sua teiera (Dickey), e il titolo di Sir al suo gatto. È anche un gesto polemico contro la mummificazione delle istituzioni, sempre nociva per le società.
Oggi, seduto nella sua poltrona prediletta, guarda con gli occhi di vetro azzurro l’andirivieni degli studenti. Ha anche partecipato a mostre internazionali: di recente è stato a New York – una città che aveva sempre desiderato visitare – e in Germania, dove pare che gli abbiano rubato i calzettoni. Periodicamente viene portato ad assistere alle discussioni degli ultimi cultori dell’Utilitarismo. Un drappello di tecnici ne sorveglia premurosamente lo stato di conservazione.
L’ultima sorpresa che lo riguarda è di qualche anno fa, quando i restauratori del Textile Conservation Centre lo hanno spogliato per riassettargli i vestiti: sotto i suoi indumenti abituali – giacca scura, pantaloni marroni, cravatta bianca – si è scoperto che Bentham indossava un paio di mutande. Le più antiche d’Inghilterra, visto che i suoi contemporanei usavano avvolgersi nei lembi della camicia; lui, pieno di immaginazione, li ha anticipati anche nell’uso della biancheria.
Un uomo che si portava in tasca un paio di occhi di vetro del preciso colore dei suoi, che ha specificato con quale giacca presentarsi ai posteri e quale dicitura stampigliare sulla targhetta della vetrina, conosceva il valore simbolico delle immagini. Gli abiti comodi, il cappello di paglia e il bastone da passeggio suggeriscono gusti semplici e modesti; seduto in poltrona, mostra un lieve disprezzo verso i fasti del mondo. Dopo essersi battuto tutta la vita contro gli anacronismi, sapeva che lui stesso sarebbe diventato anacronistico. Il significato dell’auto- icon mi pare risieda in questa contraddizione, un guizzo autoironico oltre che autoiconico. Chiuso in vetrina, sembra dirci che l’unica possibilità di sopravvivere a noi stessi è nelle nostre opere. Tutto il resto è solo animali impagliati, manguste e tigri, come nelle teche del British Museum. La cosa più effimera che possiamo immaginare, il pensiero affidato alla carta, è la sola che ci sopravvivrà. Quanto all’incontro con il futuro, non possiamo che presentarci adeguatamente vestiti. Letteralmente e metaforicamente. Se quel lampo di moderna e igienica praticità che sono le sue mutande sono state un’eccentrica abitudine, poco importa; quello che conta è che non smentiscono l’uomo che ha inseguito il futuro, provando ad anticiparlo. La scommessa di assicurare il maggior grado di felicità possibile al maggior numero di individui è sempre aperta; e le mutande di Bentham sono appena una tessera di quel grande mosaico in divenire che è la modernità. Ma inventare, inventarsi, sperimentare, innovare si può fare con tutto. Anche scegliendo di indossare un paio di mutande.