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 2019  agosto 18 Domenica calendario

Carcas e Carrère, tra fiction e cronaca


La fantascienza? Non è mai stata appassionante per nessuno dei due. Ma hanno amato l’avventura e autori come Verne e Stevenson. Il francese:” Gli scrittori che mi piacciono sono quelli di cui ho l’impressione di sentire la voce”. Lo spagnolo:” Nella finzione sono essenziali forma e ironia"
Entrambi iniziarono negli anni Ottanta con romanzi di finzione e argomenti fantasiosi, anche fantastici. Nel corso del ventesimo e del ventunesimo secolo, entrambi sono passati alla letteratura della realtà.
Ora entrambi stanno pensando di mettere fine a questo ciclo di romanzi e racconti senza finzione. Si ammirano, ma non si erano mai incontrati di persona, anche se su questo le versioni sono diverse. Gli scrittori Emmanuel Carrère ( Parigi, 61 anni) e Javier Cercas ( Ibahernando, 57 anni) si sono incontrati, su invito di El Pais, durante una pausa del Festival internazionale del giornalismo organizzato dal gruppo
Le Monde a Couthures. Le differenze tra Cercas e Carrère – nei temi, nella forma, nelle influenze letterarie – sono evidenti. E anche le affinità.
Javier Cercas: Vorrei raccontare un aneddoto su come ci siamo conosciuti. Fu nel 2006, credo. Eravamo alla brasserie Lipp, a Parigi, con gente del mondo dell’editoria.
Emmanuel Carrère: Ah, sì.
JC: No, tu non c’eri.
EC: Abbiamo delle versioni contraddittorie.
JC: Eravamo alla Lipp. Si diceva allora che la letteratura francese non era più quella di una volta e che era in decadenza. Io dissi:” Ci sono, invece, dei grandi scrittori francesi”. E citai Jean Echenoz e Emmanuel Carrère. Dal tavolo accanto, un uomo mi interruppe e mi disse:” Le piace la letteratura di Emmanuel Carrère? Aspetti un momento”. Tirò fuori il telefono e mi chiese come mi chiamassi. Fece un numero e disse:” Emmanuel, ti passo Javier Cercas”. Ti ricordi?
EC: No.
JC: Quell’uomo era un attore: il figlio di Lindon, l’editore.
EC: Vincent Lindon! La mia memoria è detestabile. La cosa curiosa è che ricordo di aver incontrato Javier alla Lipp, anche se non ci vado mai. Inoltre, non conoscevo i suoi libri. Il primo che lessi fu Soldati di Salamina...
Credo che fu nel 2007 o nel 2008.
JC: Scoprii Emmanuel nel 1989. Ero tornato a Barcellona dopo aver vissuto in America e avevo pubblicato il romanzo Il nuovo inquilino, quando mi leggevano solo mia madre e le mie sorelle. Il mio amico Sergi Pàmies, che è uno scrittore, lo lesse e mi chiese:” Non hai letto Baffi di Carrère?”.
EC: Anni dopo diressi un adattamento cinematografico di questo libro, con Vincent Lindon come protagonista.
JC: Formidabile.
EC: Tutto quadra.
JC: Pàmies mi disse:” Devi leggere Baffi”. Lo lessi e, in effetti, c’è qualcosa...
EC:... di prossimo, di familiare.
JC: In Baffi un uomo si taglia i baffi e la sua vita cambia completamente. Ne Il nuovo inquilino, un uomo si sloga una caviglia e tutto cambia. Quella era la trovata, l’aspetto fantastico.
EC: Storie che si fondano su quei piccoli granelli di sabbia che cambiano tutto.
JC: Veniamo entrambi dallo stesso mondo. Borges, Kafka, Beckett. Poi tu pubblichi L’avversario ( cronaca del caso di Jean- Claude Romand, il falso medico che per 18 anni ha vissuto come un impostore e alla fine ha sterminato la sua famiglia). Quest’uomo che scriveva letteratura fantastica trova il fantastico nella realtà. In quel momento anche io mi stavo dirigendo verso la realtà. Nel mio caso fu la scrittura giornalistica a cambiare qualcosa dentro di me: dovevo uscire di casa e prendere appunti.
EC: Ti ho scoperto con Soldati di Salamina e Anatomia di un istante. Erano libri di per sé straordinariamente interessanti. E c’era una sensazione di parentela: ci muovevamo sullo stesso terreno. Ma ho una domanda. Quando parli di autori postmoderni, citi Borges, Kafka o Beckett, ma per te è stata importante anche la letteratura popolare e di genere, gli autori minori?
JC: Come nel tuo caso Philip K. Dick.
EC: E altri. Bolaño l’adorava.
JC: Philip K. Dick non è stato importante per me. Altri sì: H. G. Wells. Ma non la fantascienza. Per me, sono stati più importanti i romanzi d’avventura, come Verne o Stevenson.
EC: Anche per me: Il signore di Ballantrae ( di Stevenson) è uno dei romanzi più straordinari che io conosca.
JC: L’isola del tesoro è il miglior romanzo che abbia mai letto.
EC: Non condivido l’idea che il romanzo sia morto. Ci vorrà ancora molto prima che muoia. Sono un lettore di romanzi. A me non conveniva più scriverli, anche se in fondo, quello che ho fatto da L’avversario in poi sono romanzi, ma con materiale non fittizio. Sono concepiti e strutturati come romanzi.
JC: Sono d’accordo. Una volta ho letto che non ti piaceva l’idea che i tuoi libri fossero considerati dei romanzi. Volevo convincerti che lo sono.
EC: Be’, forse mi hai convinto.
JC: Per me scrivere sui giornali è stato essenziale. E per te? Quando hai iniziato?
EC: Molto presto, come critico cinematografico. Per me, la cosa decisiva fu fare dei reportage, perché sono una narrazione. Limonov era un reportage per una rivista francese. Quando lo terminai, mi dissi che lo volevo continuare. Non c’è differenza di tono tra il reportage e il libro.
JC: Per me c’è una specificità nel romanzo.
EC: Quale?
JC: La forma. Un romanziere crede che attraverso la forma si possano dire cose che altrimenti non si possono dire. Un reportage deve riflettere bene la realtà, ma la forma non è essenziale. In un romanzo, bisogna trovare una struttura, delle corrispondenze. Un’altra questione è l’ironia, essenziale in un romanzo e non in un reportage. Abbiamo l’idea che ciò che è essenziale in un romanzo sia la finzione, ma c’è una novità negli ultimi anni: Sebald, Carrère, Echenoz e i loro romanzi senza finzione. Knausgård. Storicamente il romanzo è un genere onnivoro: divora tutto. Balzac ha divorato la storia. Flaubert, la poesia. Mann, il saggio. E oggi il romanzo ha divorato il giornalismo.
EC: Il romanzo è qualcosa di indistruttibile. Si nutre di tutto e divora tutto. Prima che il romanzo muoia, c’è da aspettare. Per quanto riguarda la questione della forma, sono d’accordo con Javier, ma penso che ci sia una sorta di passaggio naturale tra il reportage e il libro attraverso qualcosa che non è la forma, ma il tono, la voce. Gli scrittori che mi piacciono sono quelli di cui ho l’impressione di sentire la voce, quelli che, quando li leggo, penso parlino con me.
JC: Quando pubblicai L’impostore ( la storia di Enric Marco, che si fece passare per un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti) qualcuno disse:” Ah, l’impostore è l’avversario”. Io pensavo:” O non hanno letto L’impostore o non hanno letto L’avversario”.
EC: Un punto in comune è la narrazione, sia della storia del tipo come della ricerca sulla storia del tipo.
JC: La forma è diversa. Ne L’impostore c’è una miscela di generi ed è un libro di espansione. L’avversario punta all’essenziale.
EC: È paragonabile la vertigine di fronte a questi personaggi e l’intimità con loro.
JC: Ho letto che Emmanuel ha detto:” Sono in crisi, non so che cosa farò adesso”. Quando terminai di scrivere Il sovrano delle ombre pensai che fosse la fine di quello che era iniziato con Soldati de Salamina. Fortunatamente, ho appena finito un libro che è un ritorno alla finzione in un modo diverso. Ed è il risultato di uno shock personale: la crisi catalana. Avevo l’impressione di essere giunto a un bivio dove non potevo proseguire senza rischiare di ripetermi.
EC: La stessa cosa è successa a me con Il Regno. Ora ho fatto un film, che sto finendo, e vorrei ricominciare a scrivere un libro.