Robinson, 18 agosto 2019
Il mito dell’Arca
Il bello della Bibbia, come di ogni testo sacro, è che è suscettibile di infinite interpretazioni. È un prisma, una lanterna magica che proietta incessantemente nuove combinazioni di immagini riflesse. Del resto il mito è per definizione sempre vivo, attivo, evocativo di sempre nuove proiezioni nella nostra mente, o psiche. E la Bibbia è fatta di miti. Il mito dell’arca in cui la natura vivente si salva da «un cataclisma che procura un’inondazione del mondo» – come lo definisce Igino nelle sue Fabulae, riferendosi alla sua versione ellenica, la storia di Deucalione e Pirra —, ossia da una sorta di globale tsunami, ha una speciale forza archetipica. Che sia o no residuo di un’effettiva e collettiva memoria ancestrale, l’archetipo del diluvio universale si ritrova, con poche varianti, in quasi tutte le civiltà asiatiche, europee e africane.
Oggi il mito dell’arca di Noè si è fatto allegoria della possibilità di una salvezza materiale e anche etica dell’umanità, condannata dalla propria distruttiva stoltezza e crudeltà verso il mondo naturale, attraverso il recupero dell’integrità, completezza e molteplicità delle specie non umane, la presa d’atto dei loro diritti e la consapevolezza della loro flagrante maggioranza rispetto all’esile gruppo rappresentato dall’egemone homo sapiens. Secondo il testo biblico, Noè, su comando divino, imbarcò nell’arca almeno «due di ogni specie». Secondo gli studi di quegli scienziati un po’ puerili che hanno voluto verificare la “sostenibilità” del racconto biblico comparando le indicazioni delle misure dell’arca col numero delle specie animali presenti sulla terra, accanto a Noè e alla sua famiglia avrebbero dovuto trovare posto almeno 50 mila tra mammiferi, uccelli, anfibi e rettili, per non contare gli insetti e gli altri più minuti organismi viventi.
È una conturbante epifania di cui la pur immensa iconografia del racconto biblico, nell’antropocentrismo cristiano che anche subliminalmente la caratterizza, non riesce mai a dare conto, coi suoi cataloghi anche rutilanti ed esotici di coppie di bestie, domestiche e feroci, terrestri e celesti, che esibisce nella pittura o nella miniatura. Ma se proviamo a visualizzare interiormente questa proporzione, 50 mila animali contro otto umani, vediamo il mito dell’arca riattivarsi in noi nella constatazione dell’esiguità della nostra specie e in quella, immediatamente conseguente senza necessità di intervento divino, delle nostre colpe verso la ricca e soverchiante natura animale. Ma forse l’immagine dominante e più stupefacente del mito dell’arca è quella delle miriadi e miriadi di coppie che si avviano a entrarvi. Secondo Empedocle, il filosofo presocratico che, come scrisse Lucrezio, sembrava a stento della nostra specie, ed era stato già ragazzo e ragazza, albero, uccello, pesce muto che guizza dal mare, e nella sua ultima incarnazione umana si asteneva dal cibarsi di creature animate, tutte le cose viventi – alberi, fiere, uccelli, pesci – nascono dal travaglio dell’amore, «in cui tutto si riunisce, perché ogni cosa muore di desiderio per l’altra». Nelle decine di migliaia di coppie riunite nell’arca, ciò che Noè, per comando di dio, salva, è forse, anzitutto, l’infinita, inestinguibile legge del desiderio, dal quale ogni cosa distrutta, soppressa, sommersa, inesorabilmente rinasce alla vita.
La fabbricazione dell’arca; le sue misure; la durata del diluvio; l’invio, al suo cessare, della colomba e del corvo: è simile fin nei dettagli alla storia biblica la versione, più antica, della mitologia mesopotamica, dove però il mancato ritorno del corvo, che Noè maledirà e san Girolamo chiamerà l’"infetto uccello della corruzione”, è invece accolto con gioia dal principe Ziusudra: il mondo è ancora abitabile. Anche qui il diluvio è inviato da un dio, irritato dal” rumore dell’umanità”, o, secondo la versione dell’epopea di Gilgamesh, determinato a punirla dei suoi peccati.
Proprio come nel mito biblico, che è anzitutto un mito di elezione e rivelazione. Noè è l’unico giusto in un’umanità degenerata e già inondata dal male, per questo JHVH gli rivela l’imminenza del castigo e gli ingiunge di salvare, oltre al mondo animale nella sua interezza, un «buon seme» dell’animale umano: il suo e quello dei suoi figli, con le relative mogli.
L’unicità del giusto, la visione eugenetica di un minuscolo gruppo umano esente dal male” per sangue”, tipica della tradizione ebraica, imbarazzeranno gli esegeti cristiani dei libri 6- 9 del Genesi, che offriranno nei loro commenti interpretazioni allegoriche in cui l’arca è immagine della futura chiesa: le sue proporzioni, minuziosamente elencate nel racconto biblico, corrispondono secondo Agostino a quelle del corpo di Cristo e quindi del corpo ecclesiale. In seguito gli esegeti cristiani arriveranno a scorgere nella disposizione degli animali nell’arca, dislocati su più piani a seconda del loro grado di purezza, le gerarchie ecclesiastiche. La colomba che contrariamente al corvo torna recando un ramoscello d’ulivo diventerà immagine dello Spirito Santo nonché della promessa di salvezza eterna, e infine simbolo di pace.
Se nella tradizione coranica l’elezione di Allah è meno gelosa di quella di JHVH e settantotto sono in totale i giusti ospitati nell’arca al termine di un’alacre quanto affrettata opera di predicazione e conversione, la successiva esegesi rabbinica glosserà secondo altre e più esoteriche linee la narrazione scritturale, arricchendola di dati e significati. Per esempio l’arca, sigillata, dovrebbe a rigore essere buia, ma è illuminata da una profusione di pietre preziose che la rischiarano a giorno: dettaglio forse alchemico, figura di un salvataggio non solo della natura animale ma anche di quella minerale e cristallina; comunque metafora della luce interiore dell’arca psichica, in cui la pluralità del vivente può salvarsi in ciascuno di noi.