La Lettura, 18 agosto 2019
Sugli epigrammi
WIMBLEDONX
Nel Discorso preliminare sopra l’epigramma un giovanissimo Leopardi notava che «l’arguzia e il sale dell’epigramma formano la sua dote principale. Lo stile vibrato e racchiuso in un breve giro di parole è quello che lo caratterizza». Siamo nel 1812 e l’epigramma aveva assunto ormai da secoli quei tipici requisiti formali e d’impiego – sapidità, concisione, intelligenza, spregiudicatezza, spirito critico – che ha poi mantenuto fino ai giorni nostri. E non c’è dubbio che nella vicenda di questo sviluppo il ruolo più importante vada attribuito a Marco Valerio Marziale, il poeta latino con cui il genere raggiunge insieme la maturità e una compiutezza poetica che probabilmente non sarà più superata. Nel suo Discorso Leopardi assieme al valore ne sottolinea soprattutto i limiti, gli alti e bassi, in particolare per l’«oscenità» di tanti componimenti. Ma è un giudizio che si può correggere, perché non poche delle poesie più «spinte» di Marziale sono tra le sue più compiute ed efficaci.
Certo, esistono inevitabilmente componimenti più o meno riusciti. Eppure è la vastità e la varietà dell’affresco offerto nel complesso dai suoi epigrammi a mettere in luce tanti, decisivi aspetti degli uomini e delle donne del suo tempo che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra. Proprio così. Attraverso i cortocircuiti arguti e affilati dei suoi versi, Marziale ha raccontato anche e soprattutto il lato oscuro della società romana, non necessariamente scabroso, ma anzitutto giornaliero, quotidiano, abitudinario. Cosa c’era insomma (e spesso alla lettera) sotto le vesti dei comportamenti pubblici e ufficiali. Quello che da altri generi espressivi è stato per costituzione escluso o rimosso, lo spirito dell’epigramma altrettanto costitutivamente lo ha preteso. E dunque: una parola poetica puntuale, intelligente e ironica, e insieme diretta, rapida, comprensibile. Ogni forma espressiva comporta di necessità una retorica ma, ecco, coi suoi caratteristici tratti formali l’epigramma sfugge per natura dallo stile che fa schermo a sé stesso, da un’idea della letteratura come a mondo a parte.
Dopo i pur grandi predecessori greci e latini (tra questi Callimaco e Catullo), Marziale ha fatto dell’epigramma non un’attività laterale e accessoria, ma un’arte totale, proprio come la sua Roma, che pure è fino al midollo quella antica, ci appare ancora oggi lo specchio degli uomini e della società di ogni tempo.
Tiro al bersaglio
Rileggendo la bella scelta degli Epigrammi approntata e tradotta da Arturo Carbonetto (è stata ristampata da Garzanti), si può fare anzitutto una considerazione, che è anche possibile traguardare, per similarità o per contrasto, sugli epigrammisti di qualsiasi epoca. Praticamente ogni epigramma di Marziale è mirato, ad personam. All’origine si trova sempre l’intenzione di colpire un bersaglio preciso, individuato (non va comunque dimenticato che molti epigrammi sono elogiativi, partecipi; l’epigramma nasce come iscrizione funeraria di natura commemorativa, del resto). Eppure il poeta stesso sosteneva di non mirare affatto al singolo individuo, bensì ai vizi, alle passioni, ai costumi e alle pratiche degli uomini. Di questo aveva fatto addirittura la propria regola: «Dirai che i libri miei/ appresero a serbare questa norma:/ smascherare i vizi apertamente,/ risparmiare sempre le persone». Ma allora, l’uomo o gli uomini, l’individuo oppure la specie?
La prima cosa che si può dire è che nell’epigramma si mostra come allo stato puro la tensione tra particolare e generale, tra individuale e tipico, che istituisce la letteratura come tale. Quanto più lo sguardo procede nell’irripetibile, tanto più rivela tratti che appartengono a tutti («Tu, Zoilo, non sei un vizioso,/ sei il vizio in persona»). Ma esiste poi un paradosso che riguarda più nello specifico il nostro tipo di componimento. L’epigramma – e questo può estendersi a tutte le sue stagioni più propizie – è di tutte le forme poetiche la più rivolta contro la società, pur essendo al contempo di tutte la più sociale.
Si può dire che non esista epigramma davvero efficace che non intenda la società degli uomini come propria premessa e, insieme, come proprio orizzonte.
Al di fuori di questa trama di prossimità e di relazioni immediate, di solidarietà e d’alleanze strategiche, come di altrettanto strategici scontri e opposizioni, l’epigramma è addirittura impensabile. Non ci sarebbe il bersaglio, proprio come non ci sarebbe il lettore. Tant’è che bersaglio e lettore di fatto coincidono. Come Marziale stesso sosteneva, proprio il lettore era la ricchezza più grande che Roma gli avesse concesso. Così quando, dopo averne a lungo vagheggiato la quiete, tornerà infine nelle campagne della nativa Bilbili, in Spagna, rimpiangerà proprio le ipocrisie e l’ambigua vitalità umana di cui la sua poesia si era nutrita. Mentre dal canto loro proprio i suoi lettori, anziché offendersi o vendicarsi, ci tenevano moltissimo a divenire per una volta almeno la vittima dei suoi versi.
L’aspetto corrosivo
Se le cose stanno così, è più semplice far rivivere la forma o il mero aspetto corrosivo piuttosto che lo spirito profondo dell’epigramma. Nella nostra letteratura ha conosciuto diverse epoche feconde: il Rinascimento, il Sette-Ottocento (Monti, Alfieri, Foscolo, Manzoni, Leopardi), quindi il Novecento, diffusamente ma in particolare negli anni Sessanta e Settanta: Saba e Montale, narratori come Fenoglio, Bassani, Flaiano, Arbasino, ma soprattutto poeti intellettuali come Fortini e Pasolini (ne hanno scritti entrambi di bellissimi), fino a Valentino Zeichen, che di tutti gli epigrammisti degli ultimi decenni è stato probabilmente il più completo, perché per lui l’epigramma non è stata solo una possibilità tra le altre, un genere specializzato, ma un punto di vista sul mondo di natura etico-pratica almeno quanto conoscitiva e filosofica (in sostanza, la poesia tout court).
Uno dei suoi libri, Neomarziale, indica fin dal titolo a quale magistero si fosse direttamente rifatto. Ma proprio Fortini, in un suo componimento intitolato non a caso Palinodia, ha fissato perfettamente la dimensione e sociale e politica in cui l’epigramma va compreso: «Di avere scritto epigrammi mi pento./ Lo scherzo è familiarità. Vuol dire:/ noi siamo eguali». Forse intendeva che soltanto l’azione non perdona, che è davvero senza ritorno. Ma non l’epigramma. Quando è al suo meglio è anzi un modo espressivo democratico e insieme cortigiano, fazioso e comunitario, di parte e super partes, precisissimo eppure occasionale (e le occasioni sono mutevoli, sempre reversibili); un genere in cui il nemico, se così si può chiamare, non sta dall’altra parte della barricata, ma cammina al tuo fianco, per le stesse strade della stessa città, fino a confondersi con te. Fortini ha ragione, «noi siamo uguali». È proprio questo che gli epigrammi di Marziale insegnano. Ed è terribile, ma forse anche mirabile.