La Lettura, 18 agosto 2019
Sugli aforismi che non ci sono più
Nel multiforme universo della twitteratura dovrebbero essere compresi anche i tanti libri che negli ultimi anni individuano in Twitter il punto d’arrivo o il metro di paragone di fenomeni antichi. Come I tweet di Cicerone. I primi 2000 anni dei social media di Tom Standage (tradotto in italiano per Codice nel 2015) o il più recente A Theory of the Aphorism. From Confucius to Twitter («Una teoria dell’aforisma. Da Confucio a Twitter») di Andrew Hui, pubblicato quest’anno dalla Princeton University Press. Un saggio che si ripromette d’intrecciare tre metodi d’analisi – filosofico, filologico ed ermeneutico – per dimostrare, in sei capitoli dedicati a personaggi e secoli diversi, come gli aforismi si pongano «prima, contro e dopo» i grandi sistemi filosofici.
L’adagio va veloce
È interessante che, dovendo inquadrare la forma dell’aforisma, l’autore faccia leva su uno dei tratti più tipici di questo tipo di testi: l’antitesi, il paradosso. La forza degli aforismi sta – sostiene Hui, professore associato di humanities allo Yale-Nus college di Singapore – nella loro natura «atomica»: nel fatto che racchiudono il massimo d’intensità in una lunghezza minima. (Giocando su uno dei sinonimi italiani, potremmo dire che le massime sono racchiuse in frasi minime). Il loro destino è dettato dall’essere testi brevi che per essere capiti richiedono tempi lunghi. (L’adagio va veloce, è la sua comprensione che è lenta). Di qui la sovrabbondanza dei commenti: più laconico è il maestro, più prolissi sono gli allievi. L’aforisma è etimologicamente – alla base c’è il greco antico aforízo «definisco» – una sentenza che delimita; ma al tempo stesso forza i limiti del linguaggio, provocando un’esplosione di significato. È un detto che sfonda il tetto del non detto.
Tutto scorre
I primi aforismi propriamente detti della tradizione occidentale, in effetti, sono dei precetti. «Li Aphorismi d’Ipocràs», come li chiama Dante nel Convivio: gli insegnamenti della scuola medica di Ippocrate. Ma se si guarda alla modalità di espressione, si può risalire – come fa Hui – almeno a Eraclito, il filosofo di Efeso non a caso soprannominato «l’oscuro». Sono molti i suoi frammenti che parlano evocativamente del lógos, inteso di volta in volta come discorso, pensiero, senso, spirito individuale o cosmico. In nessuno, invece, si legge l’affermazione che «tutto scorre»: quel pánta rhei divenuto da tempo uno degli aforismi filosofici più sfruttati. Insegna di negozi, ristoranti, alberghi; nome di aziende, istituzioni, uffici, centri medici; titolo e sottotitolo di qualsivoglia opera; verso canzonettistico ad effetto (in rima con singin’ in the rain); tatuaggio disegnato su braccia e schiene. Cifra, marchio, simbolo: dal lógos al l ogo.
Un destino comune, peraltro, a molti altri fortunati aforismi – filosofici e non – risalenti alle epoche, alle culture, alle voci più disparate. Aforismi come slogan: usati alla stregua di motti popolari, confusi con tormentoni e ritornelli. Non sarà un caso che la bibliografia linguistica più recente sui testi e le scritture brevi si concentri soprattutto su frasi provenienti dalle pubblicità, dai film, dalle canzoni.
La «paragnomica» e il «popverbio»
A tenere insieme questo precipitato di citazioni c’è il richiamo a una – vera o presunta – saggezza. Quella dimensione che, con un’altra parola d’origine greca, si chiama gnomica; una sentenziosità, cioè, legata alla ricerca della conoscenza (la radice è la stessa del verbo gignósko «conoscere»). Anche se oggi, sentendo parlare di letteratura «gnomica», molti penserebbero alle favole piuttosto che alla filosofia: agli gnomi più che alla gnosi. La testualità gnomica è comunque una testualità ridotta, quasi in pillole, proprio come accade per i microtesti (tweet, meme, gif) che imperversano oggi. Al punto che si potrebbe parlare, in proposito, di testualità «paragnomica»: una versione inflazionata e banalizzata dell’antica tradizione aforistica.
Ricostruire il diverso contesto storico e di pensiero in cui sono stati prodotti, raccolti o commentati alcuni degli aforismi filosofici più celebri (come fa Hui, affrontando – tra gli altri – Erasmo, Pascal, Nietzsche) ha il merito d’innalzare un baluardo rispetto a questo processo di indiscriminata assimilazione. È in questo pervasivo blob, d’altra parte, che prende forma la fluida categoria del «popverbio»: una evoluzione (o involuzione) postmoderna del proverbio, in cui tutte le distinzioni si annullano e allineano in direzione del pronto consumo. Alto e basso, antico e moderno, autoriale e popolare si mescolano in un repertorio preconfezionato sempre disponibile al forsennato riuso tipico della rete e dei social.
Quotazioni d’autore
La dilagante diffusione degli anglicismi derivati dal verbo to quote «citare», in effetti, sta pian piano rendendo obsoleta, oltre alla dicitura, l’idea classica della citazione. Il principio d’autorità che in origine l’ha generata diventa sempre più evanescente, e il baricentro si sposta sempre di più all’interno della visione egocentrica ed egolalica oggi dominante. Ti quoto, dunque sei. È l’atto della mia citazione che dà un senso a questo o quell’aforisma: è la ripetizione di una sua frase che dà consistenza a un nome di cui spesso null’altro si conosce se non la griffe. Ma – proprio per questo – gli si dà del tu; distorcendone, semplificandone, adattandone le parole senza alcuna remora reverenziale. Non sono solo le false attribuzioni che circolano così largamente in rete a logorare l’ipse dixit: è la totale intercambiabilità delle fonti. Per cui Dante o Gandhi, Platone o Oscar Wilde, Leonardo o Leopardi possono essere indifferentemente citati sullo stesso piano del maestro Yoda di Guerre stellari. L’aforisma come sapienza prêt-à-porter, la cui natura «atomica» va ormai intesa soprattutto come «atomizzata». Polvere di cultura dispersa nell’ambiente con cui si cerca di dare sapore a una insipida – i toscani direbbero: sciocca – purea di parole. (Di qui la deliberata scelta di un articolo rigorosamente a citazioni zero).