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 2019  agosto 18 Domenica calendario

L’autobiografia di Maryse Condé


WIMBLEDONX
«Vivere o scrivere, bisogna scegliere» sentenzia Jean-Paul Sartre nell’esergo di La vita senza fard, autobiografia di Maryse Condé. Dopo quarant’anni spesi in un’esistenza da romanzo – «ero talmente occupata a vivere dolorosamente da non avere tempo per nient’altro» – l’autrice delle Antille francesi ha passato gli ultimi quaranta a scriverli, i romanzi. Una trentina di opere narrative tra cui Segù (1984, edizioni Lavoro), epopea del Mali precoloniale, più alcune teatrali, saggi e libri per bambini che le sono valse, tra l’altro, il Nobel per la letteratura alternativo a quello sospeso per lo scandalo delle molestie sessuali.
La sua storia, non meno avvincente della sua fiction, è l’ultimo dei suoi racconti. Nata in Guadalupa nel 1937, è una ragazza di belle speranze della nascente borghesia nera. Figlia di una delle prime maestre di colore dell’isola – istruitasi perché i creoli bianchi per cui lavorava la madre, «una bastarda mulatta analfabeta», le permisero di approfittare del loro istitutore – e di un padre a sua volta «bastardo» e orfano, che aveva studiato a spese dello Stato fondando poi una piccola banca. Si definivano Grands-Nègres, «negri di livello». Maryse è una delle pochissime liceali dell’isola a preparare l’esame per entrare nelle grandes écoles parigine.
Ma nella Ville lumière la sua vita prende una piega diversa da quella cui pareva predestinata: l’uomo di cui s’innamora, l’haitiano Jean Dominique, la lascia. Il giorno prima gli aveva annunciato di essere incinta: «con aria compresa mi spiegò che una minaccia di eccezionale gravità si profilava all’orizzonte di Haiti. Un medico, tal François Duvalier, si candidava alle elezioni». E l’uomo «non aveva alcuna delle qualità necessarie per un posto di tale responsabilità». Così, quello che poi è divenuto l’eroe dell’opposizione al dittatore nell’agiografico documentario The agronomist di Jonathan Demme, scompare senza neanche più scriverle.
Da studentessa modello diventa una ragazza madre, «abbandonata come una serva», le sue sicurezze s’infrangono. Sorelle e amici si allontanano, quando avrebbe dovuto studiare per il difficile esame partorisce, poco dopo muore la madre in Guadalupa. Deperita per la sofferenza e la povertà si ammala di tubercolosi, è costretta a separarsi dal neonato e andare in sanatorio a Vence, dove riesce a laurearsi in lettere. Torna a riprendersi il bambino, trova un lavoro ma è una vita di stenti. Sperando di recuperare il suo rango nella società si sposa. Lui è un attore della Guinea che «aveva fretta di mostrare in giro quella moglie universitaria (...) che parlava francese come una vera parigina». Non riesce neanche a confessargli di avere un figlio “naturale” (riaffidato a una balia che faceva da mamma un po’ a tutti e due). Ma pochi mesi dopo aver cercato di plasmarlo secondo i suoi gusti si arrende, riprende il bambino e – incinta di lui – lo lascia accettando un lavoro in una scuola della Costa D’Avorio.
L’Africa è per lei, divoratrice di libri, poco più che un oggetto letterario, ma è anche una terra verso cui i discendenti degli schiavi nutrono una malinconia esistenziale. Contro il parere di tutti, con il piccolo Denis e il pancione, si imbarca a Marsiglia, per lei «la tela di fondo» di Banjo, del giamaicano Claude McKay. Il transatlantico la porta dapprima a Dakar, all’epoca «una minuscola cittadina, tranquilla e piena di fiori». «Non fui colpita né dai profumi né dai colori. Mi impressionò invece l’indigenza della folla» scrive. «Infermi e mendicanti di ogni sorta agitavano feroci i loro piattini (...) In netto contrasto con tutto ciò, i bianchi, allegri e ben vestiti, circolavano al volante delle loro automobili».
Dopo un anno nella Costa D’Avorio che festeggia l’indipendenza, per far conoscere la figlia al padre, parte per Conakry, una cittadina insignificante: «ad addobbarla c’era solo il mare, violaceo e sontuoso». Sentendosi sola e inquieta, riparte per Parigi dove incontra il figlio naturale del dittatore Duvalier. L’attrazione è insostenibile. Ma una notte scappa dal suo letto e prende l’aereo per Conakry, distrutta dal dolore della separazione. Torna dal marito e si ritrova incinta. Prova a dare un padre ai suoi figli e inizia a insegnare in Guinea. «Nell’unico Paese dell’Africa francofona a poter vantare una rivoluzione socialista», dove manca tutto, a differenza del suo entourage, entusiasta del presidente Sékou Touré, deplora il contrasto «tra quell’uomo onnipotente e i miserabili, famelici e cenciosi suoi sudditi, che lo applaudivano». Da questa esperienza nascerà, molti anni dopo, il romanzo Heremakhonon (1976), che in malinke significa «aspetta la felicità».
A Conakry frequenta intellettuali locali, poi imprigionati, e leader politici come l’angolano Mario de Andrade e Hamilcar Cabral. Fa esperienza del tribalismo e capisce che gli africani non l’avrebbero mai accettata come una di loro. Con Frantz Fanon inizia a pensare che «i “neri” esistevano come tali solo nella percezione degli europei». Ma la sua quête africana non è ancora finita: scopertasi incinta del quarto figlio e temendo per la vita dopo l’arresto dei colleghi nel cosiddetto «complotto degli insegnanti» trova un lavoro nel Ghana panafricanista di Kwame Nkurumah. Piena di sensi di colpa («nessuno sa che cosa avvenga dietro la fronte liscia di un bambino»), prende i figli e senza un soldo parte per non tornare mai più, ingannando il marito. Sulla strada farà amicizia con il grande regista senegalese Sembène Ousmane e lo scrittore haitiano Roger Dorsinville. Ad Accra la situazione non è migliore e deve difendersi dagli assalti degli uomini che per darle un lavoro vogliono qualcosa in cambio, arrivando a violentarla. Incontra Malcom X, Che Guevara, Julius Nyerere, viene arrestata, espulsa, tornerà inseguendo per l’ultima volta un amore sbagliato e l’illusione di «una terra che ti faccia da garante e che ti consenta di essere ciò che sogni di essere». Eppure non si sente più sola, ma ricolma di presenze invisibili. Inizia a scrivere. Racconterà il colonialismo e ciò che lo ha preceduto e seguito, lo schiavismo e le sue Antille in romanzi pieni di madri che considerano i loro figli un peso troppo pesante da reggere, e di bambini che soffrono per non essere abbastanza amati, chiudendosi in sé stessi.