Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2019
L’hard Brexit costerebbe 1,2 milioni di posti di lavoro
Soltanto una hard Brexit, per ora minacciata, avrebbe effetti più distruttivi delle tensioni commerciali, già in corso, sul tessuto economico dell’intera Unione europea.
Il protezionismo di Donald Trump ha concorso in modo decisivo all’erosione della crescita continentale ma un’uscita senza accordo di Londra dalla Ue avrebbe effetti assai pesanti nel breve termine che, combinati alla guerra dei dazi, manderebbero ko l’economia europea e, a stretto giro, quella americana.
Se il neopremier Boris Johnson deciderà di portare la Gran Bretagna fuori dalla Ue senza accordo i Ventisette potrebbero perdere, complessivamente, l’1,54% del prodotto interno lordo e 1.200.000 posti di lavoro: 139mila in Italia, 291mila in Germania, 141mila in Francia, 122mila in Polonia. I Paesi più colpiti in percentuale sulla forza lavoro: Irlanda, Gran Bretagna, Malta, Belgio, Repubblia Ceca; i settori maggiormente devastati: l’alimentare, il tessile e la chimica. Le perdite di posti di lavoro più drammatiche per l’Italia sarebbero nel settore tessile (oltre 27mila). Per i prodotti petrolchimici, farmaceutici e chimici il valore aggiunto perso, nei Ventisette, ammonterebbe a 14 miliardi di euro.
L’onda d’urto del ritorno di tariffe e barriere non tariffarie si sentirà ovunque e non solo negli Stati occidentali, più vicini all’epicentro del sisma, in primo luogo l’Irlanda. Lo sostiene uno studio, per settori, condotto dalla prestigiosa facoltà di economia dell’Università belga di Lovanio che stima l’aumento dei dazi nello scenario soft e in quello peggiore nonché la perdita di import-export sia diretta che indiretta e di lavoro per ciascuna economia dell’Unione.
Naturalmente, il sistema più colpito dallo shock del no deal risulterebbe quello inglese, con una perdita di valore aggiunto del 4,4% e 525mila posti di lavoro in fumo. «Nel modello del Global Network che abbiamo elaborato – si legge nel report messo a punto dalla professoressa Hylke Vandenbussche – non ci sono vincitori da Brexit, almeno non nel breve termine. Il modello non esclude che possano essercene nel lungo periodo poiché i flussi commerciali si sposteranno beneficiando sia fornitori domestici che extra europei. Questo studio si concentra sull’impatto a breve, prima che si verifichi la deviazione dei flussi».
Lo studio suppone un passaggio completo dei dazi sui prezzi domestici e delinea due scenari: quello ottimistico (soft) prevede tariffe invariate, dunque un accordo in cui Londra rimane nel mercato unico e nell’unione doganale con tariffe a zero mentre le barriere non tariffarie sarebbero pari al 2,77 per cento. In uno scenario di hard Brexit, invece, le tariffe sarebbero determinate seguendo la regola Wto dello status di nazione più favorita. Le altre barriere – misure di controllo alle frontiere, standard e regolamenti domestici – toccherebbero l’8,3 per cento.
L’effetto negativo si attenuerebbe con il tempo ma la sua durata non viene al momento stimata. Intanto da Washington l’amministrazione Trump, nei giorni scorsi, ha dato a Johnson il suo sostegno, qualunque cosa accada il 31 ottobre. «Accoglieremo con entusiasmo una Brexit senza accordo se questa sarà la decisione del Governo britannico» ha detto John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, aprendo ad accordi commerciali con Londra «subito» ma su base settoriale, rinviando a un momento successivo le aree più delicate. Una ciambella di salvataggio solo parziale perché il mantra, per questi Stati Uniti, resta pur sempre «America First».