Corriere della Sera, 18 agosto 2019
Anticipazione dell’ultimo libro di Ágnes Heller
WIMBLEDONX
Cominciamo con un caso esemplare tratto dalla Bibbia, dal libro dell’Esodo. Il popolo di Israele fugge precipitosamente dall’Egitto, dove era trattenuto in schiavitù. Si libera così dalla sua condizione di asservimento senza dover lottare per la libertà: la libertà gli viene offerta in dono. Nel lungo peregrinare nel deserto, gli Ebrei avevano perso la sicurezza che la condizione di schiavi aveva garantito loro per molti anni. Esasperati per le incertezze della loro esistenza vagabonda, non esitano a rimpiangere le città pagane dei loro oppressori, dove avevano vissuto nella sicurezza della schiavitù. Poi ricevono come dono divino una costituzione, sotto forma dei dieci Comandamenti. Ormai affrancato dalla schiavitù, al popolo di Israele si presenta l’occasione di diventare libero, perché solo un popolo libero merita la legge fondamentale, unica garanzia di uguaglianza politica, come condizione – e onere – per l’istituzione delle libertà, tra le quali l’impegno per la sicurezza. E come sfrutta, il popolo di Israele, la prima opportunità di agire in piena libertà? Con l’adorazione del vitello d’oro.
Questo ben noto episodio, presto diventato simbolico, si è ripetuto svariate volte nel corso della storia. La sua ultima incarnazione si ritrova nella storia recente di un pugno di Paesi dell’Europa dell’Est – come il mio, l’Ungheria – dove i cittadini hanno ricevuto la libertà quasi fosse un regalo di compleanno ma non sono riusciti a tenersela stretta. Tra i vari motivi, possono annoverarsi anche l’assuefazione alla sicurezza della schiavitù e l’adorazione del vitello d’oro.
Benché la vicenda biblica si sia ripetuta innumerevoli volte nella storia dell’uomo, essa aveva tendenzialmente un significato episodico, poiché il ventaglio delle istituzioni politiche disponibili era rimasto assai ristretto per oltre duemila anni: in fin dei conti, tutte le nazioni erano governate da un sovrano o da poche famiglie nobiliari. Nelle parole di Aristotele, per illustrare la situazione: ci sono uomini che nascono liberi e ci sono uomini che nascono schiavi. Il luogo dove nasci determinerà la posizione che riuscirai a occupare nella gerarchia sociale fino alla tua morte, e così pure i tuoi figli e le tue figlie dopo di te. (...)
Lo stato attuale del mondo è fondamentalmente diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. Questa differenza fu evidenziata dai filosofi dell’Illuminismo e divenne la lex lata delle prime costituzioni repubblicane nella seguente dichiarazione fondativa: «Tutti gli uomini nascono liberi con gli stessi diritti». Ma già Rousseau aveva sottolineato: «Tutti gli uomini sono nati liberi e dappertutto sono in catene», esemplificando la rigorosa distinzione filosofica tradizionale tra l’affermazione empirica e quella trascendente. Eppure, in realtà, in tempi moderni non solo l’affermazione trascendente è fondata sull’universalismo, ma anche quella empirica. Entrambe parlano di «tutti» e «dappertutto».
È stata così formulata l’idea fondamentale del mondo moderno. La schiavitù esiste ma contraddice la norma. La norma è «naturale», essendo tutti gli uomini per natura nati con pari diritto alla libertà, mentre la realtà empirica – sono in catene – risulta «innaturale».
Pertanto la modernità si fonda sulla libertà. Se tuttavia vogliamo credere all’affermazione di Rousseau – «e dappertutto sono in catene» – dobbiamo trarne la conclusione che sebbene la modernità sia basata sulla libertà, la libertà è un fondamento che non fonda… Lasciatemi spiegare: quando Aristotele disse: «Alcuni uomini nascono liberi e altri nascono schiavi», non esisteva nessuna differenza tra il contenuto normativo ed empirico della dichiarazione. In realtà, alcuni uomini nascevano de facto liberi, e altri de facto schiavi – al tempo questo era naturale, e così doveva essere. Le cose stavano forse diversamente nell’antica e leggendaria età dell’oro, di cui però ormai si era smarrita ogni traccia. È solo in epoca moderna che i filosofi dichiarano che tutti nasciamo liberi e di conseguenza godiamo di pari diritti. La Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 li enumera: diritto alla vita, alla libertà, e alla ricerca della felicità. Oppure, nelle parole della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: i diritti dell’uomo, i diritti del cittadino.
Sono trascorsi oltre 250 anni da allora, ma ancora ripetiamo con Rousseau: tutti gli esseri umani nascono liberi, eppure essi sono (quasi) dappertutto in catene. Da Rousseau in poi, questo apparente paradosso, che punta il dito verso l’abisso che separa l’affermazione trascendente da quella empirica (tutti gli uomini nascono liberi, essi sono dappertutto in catene), è rimasto valido, e non di rado quell’abisso si è scavato ancor di più dai suoi tempi.
E tuttavia, dopo Rousseau, dopo la Rivoluzione francese, la struttura sociale esistente all’interno dei «referenti» (regioni, nazioni e società diverse) e tra di essi, finalmente ha cominciato a poco a poco a cambiare. Ancorché resti valido l’assunto che il mondo moderno è basato sulla libertà, si è scoperto – cosa che si sarebbe potuto evincere orientativamente sin dall’inizio – che la libertà è un fondamento che non fonda, poiché la libertà è incapace di fondare. Per una ragione molto semplice: se gli esseri umani sono liberi, essi sono liberi anche di scegliere la negazione della libertà. Se non potessero farlo, non sarebbero davvero liberi. Potrebbe sembrare uno scherzo o un cavillo filosofico, ma non lo è, poiché esso ha gravissime ripercussioni teoriche e pratiche per il mondo presente e futuro. Che cos’è la modernità? Com’è stata narrata la sua storia?
La prima storia della modernità ruota attorno al conflitto tra il vecchio e il nuovo. Il vecchio venerando ha perso ogni fascino e autorità, mentre il nuovo comincia a risplendere nella luce della bellezza e della verità. Esiste anche una seconda versione, che viene propagata dal tempo della Rivoluzione francese fino a tutto il Diciannovesimo secolo: è la «grande narrativa» del progresso universale, dalla cultura orientale passando attraverso la Grecia e Roma fino ad approdare all’Europa di oggi, che rappresenta il risultato finale, il traguardo, il compimento della storia mondiale. La «grande narrativa» può anche essere percorsa in senso inverso, come storia di decadenza e disfacimento, forse anche come ripetizione dei medesimi fenomeni, eppure in fin dei conti equivale alla stessa cosa: pur narrando la storia all’inverso dal presente, la modernità coincide sempre con il presente.
Ma allora che cos’è la modernità?
Che l’ordinamento sociale moderno sia l’opposto di tutti gli ordinamenti sociali pre-moderni, è un concetto scontato. La modernità si basa sulla libertà. Ma quest’affermazione resta vuota fintanto non si cominci ad analizzare la struttura dell’ordinamento sociale moderno. Quali sono i componenti principali, le «logiche», della modernità? Quale tipo di dialettica, quale modalità di interazione tra le sue contraddizioni caratterizza la modernità? Quali sono i componenti fondamentali della modernità, indispensabili alla sua sopravvivenza? Quali sono, di conseguenza, le sue possibilità? E quali i limiti delle sue possibilità?
A mio avviso, esistono tre logiche fondamentali della modernità (e riconosco che ve ne sono anche di non fondamentali).
La prima: la distribuzione dei beni, degli uomini e dei servizi attraverso il mercato, vale a dire, in senso generale (molto generale) il capitalismo.
La seconda: lo sviluppo costante della scienza e della tecnologia, ovvero l’accumulo delle conoscenze, sia il «che cosa» che il «come».
La terza (questa logica è già assodata): la possibilità di scegliere liberamente governo e istituzioni.
La prima e la seconda logica non possono essere eliminate, perché senza di esse la modernità si disintegra né si può scavalcare la terza. Eppure, il modo in cui gli uomini usano il diritto di scegliere governo e istituzioni rappresenta la chiave di tutte le loro libertà.
Per riassumere: nella misura in cui gli uomini fondano istituzioni libere (come nella democrazia liberale) la terza logica può controllare le altre due. Per quel che riguarda il mercato, nella consapevolezza che la distribuzione tramite il mercato fa aumentare le disuguaglianze sociali, le istituzioni politiche possono intervenire per operare la redistribuzione della ricchezza e scongiurare esiti catastrofici. Nel campo dello sviluppo della scienza e della tecnologia, le decisioni politiche sono in grado di arginare quelle innovazioni tecnologiche che possono rivelarsi pericolose. In tutti i casi in cui le istituzioni politiche non vengono liberamente elette e rielette, e se il potere non è condiviso, nulla potrà impedire al mercato e alla tecnologia di farla da padroni e di agire in modo disordinato e incontrollato. Pertanto la libertà politica è il prerequisito della sicurezza di un popolo.
Ai suoi esordi, l’universalismo venne formulato come una mera congettura (da notare che «tutti gli uomini» si riferiva esclusivamente ai maschi europei o americani) ma ai nostri giorni il principio dell’universalismo è universalmente condiviso. La Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite inizia con la frase: «Tutti gli esseri umani nascono liberi», e quest’affermazione è stata sottoscritta da tutte le nazioni del globo, comprese le dittature. Il mondo intero è diventato moderno, non solo in senso normativo, ma anche in senso empirico, poiché condivide le tre logiche della modernità. Le prime due (distribuzione tramite il mercato, scienza e tecnologia moderne) si sviluppano spontaneamente, ma non la terza.
La terza logica della modernità offre la possibilità a un popolo, uno Stato, un impero, una città, di scegliere le proprie istituzioni politiche, tra le quali anche forme di governo che intervengono ogni qualvolta si profila la minaccia che la prima o la seconda logica della modernità possa sottrarsi a ogni controllo. I rapporti di mercato potrebbero alterarsi drasticamente fino a produrre povertà, fame e carestia su scala mondiale, e di conseguenza anche ribellioni, genocidi e guerre su scala mondiale. La seconda logica (sviluppo della scienza e della tecnologia) potrebbe sfuggire di mano, creando tecnologie che avvelenano i nostri fiumi, l’aria, l’ambiente e la vita in genere, oppure costruendo macchine da guerra capaci di annientare gli esseri umani e la natura. La sicurezza della nostra generazione e della prossima è affidata alle nostre scelte politiche: dipende dalla terza logica. La nostra sicurezza e la sicurezza della prossima generazione dipendono dalla nostra libertà, o meglio, dall’uso che noi facciamo della nostra libertà.
La modernità si basa sulla libertà eppure, lo ripeto: la libertà è un fondamento che non fonda. In altre parole, in gran parte del mondo il paradosso di Rousseau è tuttora valido: tutti gli uomini nascono liberi eppure essi sono quasi dappertutto in catene. Sono liberi di assoggettarsi a dittature, tirannie, oligarchie, regimi totalitari oppure diventare cittadini di democrazie liberali. Tuttavia, proprio come i regimi totalitari possono crollare, così pure le democrazie liberali. Il Ventesimo secolo ci ha fornito svariati esempi. Si presuppone sempre che il mondo non andrà avanti come al solito, che la pace non durerà per sempre, che le nubi minacciose all’orizzonte delle democrazie liberali non spariranno d’incanto a meno che gli abitanti di quegli Stati acquistino la consapevolezza che la sicurezza di un mondo, di una società e delle generazioni future dipende dalla libertà, e più precisamente dall’utilizzo della possibilità di libertà, dalla narrativa della libertà politica ma anche dall’assumersi consciamente la responsabilità di tutelarla.
Le società moderne sono società insoddisfatte: il «capitano» regge il timone, ma non è lui a decidere la rotta, bensì i passeggeri e l’equipaggio. Per parlare senza metafore: l’insoddisfazione è giustificata, perché non esiste una società giusta e le democrazie liberali sono travagliate da molti mali. Uno di questi è l’insicurezza. Ci sono e ci saranno sempre molti che ripenseranno con nostalgia alle città pagane d’Egitto, che chiederanno al capitano di impostare la rotta verso l’isola di Utopia. Tuttavia, le utopie non servono a niente. È impossibile superare la modernità, perché non c’è nulla dopo o sopra di essa. Si può solo arrivare a peggiorare l’assetto politico all’interno della società moderna. Nessuna società è in grado di garantire la felicità, l’amore ricambiato, il successo professionale e le soddisfazioni personali. Nessuna società è in grado di assicurare a tutti l’uguaglianza ma solo pari diritti e libertà ai suoi cittadini e – fino a un certo punto, ma mai del tutto – pari opportunità per sviluppare le proprie capacità. Non si arriverà mai a una società giusta perché una società completamente giusta non esiste e non esisterà mai. Esiste però un sistema politico dove tutti possono lottare per la giustizia. Non esiste la libertà assoluta né la sicurezza assoluta, perché se esistessero, non ci sarebbe motivo di vivere. L’Homo sapiens non diventerà mai perfetto, buono, razionale. Ma, per ricordare le parole di Kant, è possibile fondare istituzioni grazie alle quali persino una razza di diavoli sarà costretta a comportarsi onestamente. Resta sempre valido l’invito di Voltaire a coltivare il nostro giardino.
La modernità è il nostro giardino, all’interno del quale trovano posto il continente, lo Stato e la città dove abitiamo. La vita sociale e la vita politica sono pericolose, e al giorno d’oggi ancor più pericolose che in passato. Perché più pericolose? Proprio a causa dell’universalismo empirico, poiché ciò che accade nell’angolo più sperduto non è più nell’angolo più sperduto, non ci sono più angoli sperduti. Proprio come in un organismo, ciò che accade in un Paese fa sentire il suo impatto su tutti gli altri Paesi. La responsabilità diventa planetaria. Se il raggio d’azione dei cittadini non è molto esteso, la loro responsabilità planetaria comincia (ma non finisce) con la responsabilità di salvaguardare le libertà della loro città, oppure di fare tutto ciò che è in loro potere per instaurare e difendere quelle libertà. I cittadini potranno allora coltivare il proprio giardino, e così facendo daranno una mano agli altri per coltivare il loro.
(traduzione di Rita Baldassarre)