Corriere della Sera, 18 agosto 2019
Intervista a Rosellina Archinto. Parla dei libri, della sua vita, dei suoi amori
«Ormai sono una vecchia signora. Ma... meglio la vecchiaia che niente». Gli occhi azzurri di Rosellina Archinto lanciano un guizzo di allegria. «Per carattere colgo il lato buono delle cose, il bicchiere per me è sempre mezzo pieno. Lo è ancora, nonostante i miei 86 anni».
Un ottimismo sempre messo in pratica. E ora, nel soggiorno della sua casa di Milano, dove i libri si contendono gli scaffali con coloratissimi vasi di Murano, Rosellina Archinto nata Marconi, signora dell’editoria, inventrice di libri meravigliosi per bambini e di epistolari preziosi, tira le fila di una vita intensa con leggerezza e ironia.
Libri sempre e ovunque.
«I primi li ho costruiti da bambina. Ritagliavo le figure dai giornali, le incollavo su quadernoni. Facevo le mie storie, storie felici. Eppure a scuola non andavo bene in italiano. I miei temi erano giudicati troppo “fanciulleschi”. In realtà non mi piaceva raccontare di me, non ho mai tenuto un diario. Ora mi spiace non averlo fatto. Tanti incontri straordinari... Li avessi annotati, sarei più contenta».
Resta la memoria. La storia di una ragazza di buona famiglia che da Genova arriva a Milano.
«Mi sono iscritta in Cattolica quando le ragazze indossavano il grembiule nero. Il mio però era sempre sbottonato. Così ogni tanto da dietro le colonne del chiostro sbucava padre Gemelli e mi puntava contro il suo dito ossuto: slacciata! E nei bagni il cartello: “la donna che si trucca è falsa”».
Atmosfera da controriforma
«In compenso c’erano ottimi professori come Fanfani e Saraceno. A Economia di donne eravamo solo due. E in Cattolica ho incontrato il mio futuro marito, Alberico Archinto».
Colpo di fulmine?
«No. Lui allora stava con una ragazza inglese che lo lasciava molto solo. Alla sera andavamo al cinema, un film tira l’altro, ci siamo fidanzati. Sposati a 23 anni, a 33 avevo 5 figli. E nel frattempo avevo iniziato a lavorare. Primo impiego, segretaria da Gio Ponti. Un uomo stupendo, solare. È stato l’anno in cui mi sono divertita di più. Di recente Parigi gli ha dedicato una grande mostra. Milano invece non l’ha abbastanza riconosciuto».
Secondo impiego?
«In un istituto di statistica. Non pagavano e me ne andai. Mi ritrovai a Vogue a fare le didascalie. Erano i tempi dei sarti non degli stilisti, la Biki, la Marucelli... La haute couture italiana. Ma la moda non mi interessava, gli abiti li compravo alla Rinascente. Appena sposata sono partita per l’America, alla Columbia University. A New York ho scoperto dei libri per bambini bellissimi. Mai visti in Italia».
E ha deciso che li avrebbe fatti anche lei.
«Nel ’63 inventai la Emme Edizioni. L’idea era di ribaltare il concetto di libro per l’infanzia affidando le illustrazioni a grandi disegnatori. Da Leo Lionni a Tomi Ungerer, da Mordillo a Munari, da Enzo Mari a Lele Luzzati».
Libri raffinati, piacevano più ai genitori.
«Certo, per i bambini abituati a immagini stereotipate e zuccherose, la novità fu grande. Ma i piccoli sono pronti a assorbire le novità molto in fretta».
Prima donna editrice.
«Mi presero per pazza. Anzi, per la ricca signora che per hobby si inventa un lavoro. Il mondo editoriale era maschilista, le donne guardate con sospetto o peggio. Bompiani faceva avances Mondadori ti guardava dall’alto in basso. Una volta mi ha bacchettato: ti diverti sempre a fare i tuoi libretti? A sostenermi sono stati in pochi: Giovanni Enriques, Feltrinelli. E mio marito, sempre dalla mia parte».
Anche dopo che il matrimonio andò a pezzi?
«La separazione è stata dura. Lasciare il conte Archinto con cinque bambini fu grande scandalo. Mi hanno attaccata, alcuni non mi hanno più salutata. Ma Alberico ha sempre fatto parte della mia vita. Finché è vissuto, è morto a soli 50 anni, abbiamo cresciuto i nostri figli insieme. Nel frattempo avevo incontrato Leopoldo Pirelli. Ci siamo voluti bene 40 anni. Lo trascinavo nei miei viaggi, nelle mie follie. Nelle cene con scrittori e artisti, da Pollini a Abbado, da Marcuse a Arbasino... Credo che con me si sia molto divertito».
Com’era la Milano d’allora?
«Di un’effervescenza incredibile. Uscivi e ti imbattevi in Vittorini, Calvino, Soldati… Al Piccolo c’erano Strehler e Chereau, alla Scala i nomi più prestigiosi. E un’eleganza purtroppo dimenticata. Oggi quando vedo in platea gente in ciabatte e canotta, mi cadono le braccia».
Che madre è stata?
«Permissiva ma con confini ben chiari. Alle femmine ho dato ogni mezzo per evitare l’aborto. Ma alla fine, come diceva Guido Vergani, la cosa che ti è riuscita meglio sono i tuoi figli».
Oltre a Milano, le sue città del cuore?
«Genova sempre. Le radici sono là, a Santa Margherita ho una casetta da dove guardo il mare per ore. E poi Parigi. Nel ’72 comprai una soffitta, sei piani a piedi. Leopoldo si rifiutava di farli e andava al Ritz. Ma io restavo lì, amavo quella casina, e poi ho bisogno dei miei spazi».
Nell’85 l’altra impresa, la Archinto Editore specializzata in epistolari.
«Nelle lettere ritrovi una sincerità che non c’è altrove. Chi le scrive non sa che saranno lette da altri oltre al destinatario. È un guardare dal buco della serratura un po’ indiscreto, ma in compenso si scoprono cose inattese di grandi come Bernstein o Freud, Maria Teresa d’Austria, Proust, Cavour... E tra i prossimi, Longhi e Montale».
Oggi nessuno scrive più lettere
«Sono rimasta tra i pochi. Le spedisco ai miei dieci nipoti per sorprenderli con la stravagante bellezza della parola scritta. Non rimpicciolita in quegli sms che hanno reso l’italiano povero e striminzito. Quanti libri scritti male!».