Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  agosto 18 Domenica calendario

Intervista a Mario Salvarani. Parla di Felice Gimondi

Fino a trent’anni fa a Baganzola, minuscola frazione di Parma, c’erano due cose da vedere: il Torrione medievale di Bonifacio Aldighieri e lo stabilimento della Salvarani. Il primo resiste, il secondo no. Crisi, malagestione, e ora lì c’è la Fiera, le cucine non si fanno più. Ma nei primi anni Sessanta, l’azienda aveva trovato un veicolo formidabile allo sviluppo su scala mondiale del suo marchio. Il ciclismo era al tempo il tramvai del successo, bisognava scovare un buon corridore, vincere le corse, ed era fatta. Nel 1962 i sei fratelli Salvarani (Renzo, Emilio, Antonio, Gianni, Luigi e Mario), dopo calcio, basket e volley, decisero di “entrare” nel mondo della bicicletta. E lo cambiarono. Gimondi sarebbe arrivato tre anni dopo. Mario Salvarani, coetaneo di Felice, ricorda i minimi dettagli di quel primo incontro, tranne uno.
«Eravamo proprio a Baganzola, in ditta, tutti e sei. C’era Luciano Pezzi, il direttore sportivo, Felice era con il suo manager. Ci sedemmo al tavolo, non parlammo mai di soldi. Firmammo subito. Tanto non ne parlammo, che non ricordo quale fosse il suo compenso. Era comunque meno della metà di quello che davamo ad Adorni, che era il nostro capitano ed era di Parma anche lui».
Perché sceglieste il ciclismo?
«Avemmo l’intuizione a Milano, in uno studio che oggi si chiamerebbe “di marketing”. Ci serviva una vetrina sportiva, il ciclismo arrivò per caso, e per un motivo: il nostro capofabbrica, Ermes Ghidini, aveva un fratello, Gianni, che aveva vinto il Mondiale dilettanti nel 1951. Non arrivò a correre con noi, ma questa storia privata ci diede la spinta necessaria.
Prelevammo tutta la struttura della Ghigi, direttori, massaggiatori, bici, macchine, e alcuni corridori, soprattutto romagnoli, come Pambianco e Ronchini. Poi ogni anno aggiungemmo pezzi importanti.
Prima Adorni, e poi Gimondi».
E arrivò l’anno di grazia 1965.
«In realtà partì come un anno di disgrazia, tanto che dovemmo mandare una lettera a tutti i corridori: o vincete qualcosa o vi tagliamo lo stipendio. Non l’avremmo fatto davvero, ma insomma, servì. Vincemmo il Giro con Adorni, Felice da gregario fu terzo. E poi il Tour».
È vero che Gimondi non avrebbe dovuto correrlo?
«Adorni era il capitano designato, si correva in 11 per squadra. Una settimana prima Fantinato però si ammalò. Chiedemmo a Pezzi se fosse il caso di portare Gimondi, lui era convintissimo, più di Felice».
Il resto è una delle più belle storie del Novecento italiano.
«Felice prese la maglia gialla alla quarta tappa, Vittorio iniziò a star male dopo una cena in un albergaccio nei dintorni di Bordeaux. Il Tour mandava i francesi negli hotel buoni, noi altri si dormiva in scuole, bettole, bottegacce. Felice diventò capitano, ma avevamo davanti Poulidor e il tifo di casa. Decisi di prendere la macchina e andare su. Fu alla vigilia della crono del Mont Revard».
Come andarono le cose, quel giorno?
«Felice era sicurissimo di sé. Al mattino lui faceva colazione, mi avvicinai, gli dissi “guarda che noi siamo contenti anche così”, mi guardò appena, così gli dissi “sei uno stronzo”. E lui: “Io questo Tour lo vinco, lo batto anche oggi Poulidor”.
"Sei proprio un bergamasco del cazzo"».
E poi?
«Fece la ricognizione, visionammo gli ultimi 5 km, lui in bici, noi in ammiraglia. Mentre scendevamo incrociammo Poulidor che invece saliva in macchina. Vedere Felice che provava a fondo lo demoralizzò. E Felice fece quella crono con un dente del pignone spezzato, spingendo un rapporto folle. Vinse quel Tour e fu una manna anche per noi della Salvarani. Il suo volto era il nostro volto, nel mondo Salvarani e Gimondi divennero sinonimi, in Brasile ci conoscevamo come Salvarani-Gimondi».
Durò fino al 1972.
«Ma anche dopo. Quando vinse il Mondiale era già un uomo Bianchi. Il giorno dopo arrivarono in ditta tremila fax: erano appassionati che ci chiedevano come mai sulla maglia Gimondi non avesse più lo sponsor Salvarani. Noi eravamo già usciti dal ciclismo e forse quello fu un errore.
Lo abbracciai a Barcellona, e lui mi disse “la maglia iridata la meritavate voi”. Nel ’72 aveva già 30 anni, non voleva deluderci e ci disse “io corro, voi mi date lo stipendio a fine stagione”. Siamo stati amici sempre, anzi di più: lui è stato padrino di battesimo di mio figlio e di un mio nipote. La notizia della sua morte, così improvvisa, mi ha sconvolto».
Gimondi contro Merckx era anche Salvarani contro Molteni, un derby italiano.
«Era un mondo che non c’è più, quello del boom economico, della provincia, del lavoro umile e dei grandi sogni. Ci abbiamo creduto e finché è durata è stato bellissimo».
Ricorda il vostro ultimo incontro?
«Eravamo alla presentazione di un libro di Alessandro Freschi, C’era una volta la Salvarani, era il 2016. Fu bellissimo ritrovarci, fra trecento persone. Ci dicemmo “ci sentiamo e ci vediamo presto”. Sarò al funerale, è stata una delle persone più importanti della mia vita».