la Repubblica, 18 agosto 2019
Sudan e la transizione verso la democrazia
È arrivato a Khartoum vestito di blu, il colore delle rivolte in Sudan. Abiy Ahmed, primo ministro dell’Etiopia, e capo negoziatore dell’intesa fra il Consiglio militare transitorio, che aveva assunto il potere dopo la caduta del presidente Omar Hassan al Bashir l’11 aprile, e le Forze del cambiamento e della libertà, cartello che ha raccolto i leader delle proteste, è stato tra i protagonisti assoluti della cerimonia che ha celebrato la firma dell’accordo per il governo di transizione. È lui il garante dell’avvio di un processo democratico che stentava a partire. Un percorso segnato da repressioni violente anche dopo la fine del trentennale regime di Bashir.
Nella Friendship hall di uno dei più importanti palazzi presidenziali del Sudan, mentre il Paese affronta un’emergenza alluvionale senza precedenti, è stata scritta una pagina storica alla presenza di diversi capi di Stato della regione, tra cui il presidente del Sud Sudan Salva Kiir, e rappresentanze di vari governi, dalla Turchia all’Arabia Saudita, dall’Egitto al Qatar, accolti dal presidente del Consiglio transitorio Abdel Fattah al Burhan che oggi scioglierà la Giunta da lui guidata per cedere il passo al nuovo organismo composto da civili e militari.
«Il Sudan ha iniziato il suo percorso di transizione verso la democrazia, mi auguro che con l’aiuto di Dio nulla possa distogliere il popolo sudanese da questo obiettivo. L’Etiopia, come gli altri Stati dell’Unione Africana, affiancherà questo giovane governo affinché affronti con maggiore tranquillità i momenti difficili che di certo non mancheranno» è l’esortazione strappata a margine della cerimonia al grande mediatore dell’intesa di Addis Abeba che il 4 agosto ha posto fine a mesi di incertezza con la dichiarazione costituzionale concordata tra le parti.
A firmare l’accordo in una sala gremita, anche da giornalisti e troupe televisive, il rappresentante della coalizione civile, Ahmad Rabie, e il numero due della Giunta militare, Mohamed Hemdeti Dagalo, il generale che ha guidato a lungo le milizie ritenute responsabili di crimini in Darfur, regione occidentale sudanese, e delle più recenti violenze contro i manifestanti nella capitale, su tutte le repressioni contro il sit-in davanti al quartier generale dell’esercito lo scorso 3 giugno. Proprio lui, l’uomo forte del Sudan, è stato costretto a lasciare in sordina la cerimonia a fronte di una contestazione che ha visto la partecipazione di un centinaio di persone: scandivano lo slogan «sangue chiama sangue», riferendosi alle centinaia di vittime delle rivolte per le quali si continua a invocare giustizia.
Ma nonostante il sentimento di rivalsa nei confronti dei ‘generali’ che hanno usato il pugno duro contro i manifestanti sia diffuso in tutto il Paese, la maggioranza dei sudanesi ha accolto con festeggiamenti, sia a Khartoum che in altre città, la firma dell’accordo che vede come la vittoria della loro “rivoluzione”.
Da Atbara, da cui il 16 dicembre sono partite le proteste, è arrivato un treno carico di uomini, donne e bambini vestiti con i colori del Sudan per celebrare l’avvio di un percorso tanto agognato: quello verso una piena democrazia. Ma la strada che attende il governo che giurerà entro il 30 agosto e che sarà guidato da un economista, Abdalla Hamdok, si preannuncia piena di ostacoli. Tra le priorità la stabilizzazione dell’economia.
Mentre sul 61enne premier designato si accendono i riflettori, sull’ex presidente sudanese Bashir, 75 annni, di cui 30 alla guida del Paese, sta per calare un tragico sipario. Nelle ore in cui si celebrava la nuova fase storica del Sudan, in un’aula del Tribunale di Khartoum iniziava il processo che lo vede imputato di corruzione e riciclaggio. Dopo le prime battute la Corte, su richiesta degli avvocati della difesa, ha deciso di rinviare l’udienza al 19 agosto. Bashir, che ha da poco perso la madre e ha ottenuto di poter essere presente al funerale, avrebbe manifestato problemi di salute di natura psicologica.
L’ex generale, salito al potere con un golpe nel 1989, era stato formalmente incriminato lo scorso giugno, dopo che nella sua residenza a Khartoum erano stati sequestrati oltre 113 milioni di dollari in contanti. Su di lui pende anche un altro procedimento, per incitamento alla violenza e per il coinvolgimento nell’uccisione di manifestanti durante le proteste che avevano poi portato alla sua caduta.
Se fosse ritenuto colpevole la condanna a morte sarebbe scontata: il suo destino si compirebbe sul patibolo.