il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2019
Vacanze di famiglia senza figli
Non entro del dibattito “figli sì, figli no” che divide la mia generazione in tifoserie opposte: da un lato la curva peterpanica, libertaria, viaggiatrice, debosciata, acciaccata dagli eccessi che a vent’anni reggi senza problemi e a quaranta no, dall’altro la coalizione del “voi non sapete che vi perdete”, “voi non sapete che fatica”, “voi non sapete punto”.
Né tantomeno indagherò il ruolo del padre del terzo millennio, fra i sensi di colpa per un atavico maschilismo, la tutela dell’emancipazione femminile e il terrorismo psicologico scandinavo che ci vorrebbe tutti mammi sexy. (Nessuna epoca in occidente aveva visto così tanti spingitori di passeggini come la nostra.)
Vorrei però affrontare un problema di carattere nazionale: chiunque abbia generato una prole – che lo Stato restituisce al mittente durante il periodo estivo per via della barbara usanza che prevede la chiusura delle scuole e degli asili pubblici – vede le ferie d’agosto come una corda tesa verso la riapertura settembrina. Per chi dunque non appartenga alla fazione dei genitori funamboli e in generale per chi non abbia alcun interesse per il tema tanti saluti, buone vacanze e come gli spettatori di Blackmirror potete saltare questo articolo e arrivare a più interessanti pagine del giornale. Invece resti qui chi annovera fra gli eroi moderni non soltanto Ulisse, simbolo della conoscenza, ma anche Enea (nella veste di immigrato, badante del padre e genitore single), ma soprattutto Bob Cratchit, lo sfruttato impiegato di Scrooge nel Canto di Natale: Dickens ce lo descrive con moglie e sei figli a carico e davvero pochi scellini a disposizione. Ultima premessa: la storia che segue appartiene al genere dell’autofiction, di solito noiosissimo racconto dei cazzi propri infiorettato da vanitose e saccenti pretese di universalità.
Allora, la squadra è formata da Nico, anni 4, Giona anno 1, Anna anni 38 (ma 25 per chi non la conosce) e dal sottoscritto. Per me e Anna il 2019 non è stato un anno semplice e per questo ho ascoltato con grande interesse la proposta che lei ha tirato fuori dal cappello ad aprile: “Ma se quest’anno andassimo in Trentino in uno di quei family hotel dove ti tengono anche i bambini?”. Come insegnava Mattia Torre in alcuni casi non c’è droga più potente di una babysitter. In Alto Adige te la fanno pagare come fosse cocaina purissima, ma non importa. È l’illusione, l’idea della libertà, di ritornare per qualche istante quello che saresti senza figli. Cioè immensamente diverso. Comunque, dopo uno sguardo complice fra noi, io e Anna fissiamo Nico che imita Capitan America lanciando uno scudo per il salone e Giona che ha appena frantumato in mille briciole l’ennesimo biscotto Plasmon e ci diciamo: Yes, we can.
Ogni rivoluzione però ha bisogno dei preparativi, ogni sogno necessita di alcune soluzioni pratiche. Come arriviamo in Trentino? La nostra auto, una Micra, è piccolina, ci metti dentro un passeggino, due seggiolini e hai fatto, è piena come un uovo. Per questo quando due mesi fa ho ricevuto una piccola eredità, l’11% della vendita della casa di mia nonna in Calabria, ho deciso che avremmo investito in una macchina, più grande. E abbiamo optato per un crossover di una ditta romena, abbastanza coatto, ma che sembrava adattissimo per un viaggio da Roma alle Alpi. Sembrava, visto che quell’automobile non ci è stata consegnata in tempo per la nostra partenza. Così tutti stipati nella nostra Micra siamo partiti. Il piano era sveglia verso le 4.30, e via direzione Bologna per una prima sosta. Nico e Giona però decidono che forse l’orario della partenza era troppo tardivo, sarà che hanno le antenne per captare le emozioni e le tensioni, insomma alle 3.30 sono entrambi pimpanti e pronti a fare colazione. A Bologna siamo a casa del mio migliore amico prima che lui vada al lavoro e crolliamo tutti e quattro per la stanchezza. In serata andiamo ad assistere alle prove della band della moglie; lei è una psicologa infantile e insieme con Paolo Bergonzoni, ex cestista della nazionale e ora psicologo, e due fisioterapisti hanno fondato un complesso che si chiama Theterapisti. Li amo, Giona un po’ meno per cui non possiamo ascoltarli a lungo.
Il giorno dopo ci concediamo una giornata in un posto dal nome poco invitante: “il Villaggio della salute più”, che invece è un parco acquatico fighissimo se non ci vai nel fine settimana. Una ventina di piscine, scivoli, zone all’ombra con dei materassoni di gran comodità. Voto: diesci! Almeno prima che qualcuno portasse via le Birkenstock nuove di Anna, lasciandole in cambio un paio ben più vecchie e di una misura più piccola. Ma noi Gallico abbiamo questa caratteristica, seminiamo oggetti lungo il percorso come Pollicino per poter riconoscere la via del ritorno. Infatti dimentichiamo una felpa e un altro paio di scarpe a Bologna, i maglioni del più piccolo li abbiamo proprio lasciati a Roma, io abbandono la mia palandrana antipioggia a Rovereto. Perdiamo pannolini, salviette, cibi, un appuntamento con Alessia Gazzola e le sue figlie a Verona, altri pezzi di noi fino all’arrivo a Schenna, provincia di Bolzano. Quando alla reception dell’hotel ci danno i mini pass per Nico e Giona, i fogli A4 che rappresentano la nostra libertà, io e Anna ci diamo un cinque come giocatori dell’Nba. Perché amiamo i nostri figli e vogliamo i migliori centri estivi del mondo per loro. Brindiamo mangiando una mela trentina. Ce la possiamo fare. Ce la potete fare tutti voi.
P.s. Scrivo questo pezzo in albergo, dopo che siamo stati a duemila metri, su una seggiovia mozzafiato. Giona gioca con delle costruzioni vicino ai miei piedi, Nico dorme sfiancato. Il miniclub qui sotto è aperto, li aspetta a braccia aperte, ma finirà che saremo sempre noi quattro: la banda Gallico.