Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2019
L’economia cinese non sta andando affatto bene
La settimana di Ferragosto è stata tutt’altro che solare per le prospettive dell’economia mondiale: i mercati – tra volatilità delle Borse e segnali preoccupanti provenienti da obbligazioni, valute e materie prime – hanno registrato non solo dati macroeconomici in peggioramento, ma il simultaneo aumento dei rischi politici. Un numero crescente di analisti e investitori si chiede se le previsioni correnti (e già ribassate) sulla Cina e su altri Paesi asiatici non debbano essere riviste in peggio, mentre tornano in particolare a rafforzarsi sensazioni secondo cui la performance dell’economia cinese possa risultare inferiore alle attese e magari anche a quanto formalmente appaia. Anche per fattori che vanno al di là degli effetti dei dazi Usa.
La decisione di Donald Trump di rinviare a dicembre le tariffe del 10% su una parte delle importazioni finora escluse dal giro di vite non ha dissipato i timori che il contenzioso commerciale tra i due Paesi sia ben lungi dal trovare una soluzione. Tanto più che a Ferragosto lo State Council di Pechino ha messo in chiaro che ci saranno ritorsioni per gli ulteriori dazi, considerati «una grave violazione del consensus» raggiunto dal presidente americano al G20 di Osaka con Xi Jinping. In mancanza di schiarite, secondo alcuni analisti la rappresaglia cinese potrebbe andare oltre il settore strettamente commerciale. Ieri, tra l’altro, è emerso che a giugno la Cina si è fatta di nuovo superare dal Giappone come principale detentore di titoli di stato Usa, anche se ha leggermente aumentato gli acquisti dopo quattro mesi consecutivi di riduzioni.
Per il mese di luglio, alcuni dei principali indicatori sull’economia cinese hanno delineato un scenario in deterioramento, a partire da una produzione industriale scesa al più basso ritmo di crescita in 17 anni (+4,8%). Particolarmente deludente il mercato dell’auto, anche per i cambiamenti introdotti a giugno negli standard sulle emissioni: un mercato sceso l’anno scorso per la prima volta in quasi un ventennio sta accelerando vistosamente la sua contrazione.
«Dopo i miglioramenti di giugno, le condizioni economiche sono peggiorate a vasto raggio, compresi consumi e investimenti di capitale», sottolinea una nota di Capital Economics, che vede un orizzonte «con più debolezza», anche perché «un renminbi più basso non dovrebbe riuscire a compensare i venti contrari dei dazi Usa e del rallentamento della domanda globale». Foriera di nuove tensioni è stata la decisione americana di etichettare la Cina come «manipolatrice di valute» dopo che è stato consentito allo yuan di scendere oltre quota 7 sul dollaro, mentre diventa sempre più difficile ignorare il rischio che Pechino possa farla finita con le proteste in una Hong Kong la cui economia comincia risentirne.
Sempre a Ferragosto è emerso che la regione amministrativa speciale ha accusato nel secondo trimestre una contrazione del Pil superiore alle stime preliminari (-0,4%), inducendo le autorità ad abbassare i pronostici sull’intero 2019 dal +2-3% a una performance piatta tra lo 0 e l’1%. Il segretario alla Finanze di Hong Kong Paul Chan ha annunciato un pacchetto di stimoli da oltre 2 miliardi di dollari (ben superiore a quanto accaduto sulla scia delle dimostrazioni del 2014), per evitare una recessione che vari analisti non escludono, specie se la continuazione delle proteste dovesse accelerare fughe di capitali.
Se finora Pechino ha escluso il ricorso a massicci stimoli all’economia (a fronte di segnali di stress nel sistema finanziario), ieri la National Development and Reform Commission ha fatto sapere che sta preparando un piano per aumentare il reddito disponibile per spronare i consumi in una economia rallentata al 6,2% nel secondo trimestre.
Un nuovo studio dell’americano Rhodium Group ha peraltro rilanciato l’attenzione sulla discutibile affidabilità delle statistiche ufficiali cinesi: negli ultimi 4 anni, afferma il report, non appaiono realistiche ma semmai «massaggiate» per corrispondere ai target. Ad esempio, i dati ufficiali non avrebbero registrato la significativa volatilità nella produzione industriale tra il 2015 e il 2018, che Rhodium avrebbe accertato in base alle sue ricerche.
Oltre a provocare distorsioni nelle stime sull’economia globale e sulle politiche in altri Paesi, afferma Logan Wright, responsabile della ricerca per la Cina di Rhodium, questo approccio «comporta un costo significativo anche per la Cina», in quanto finisce per impedire o ritardare opportune riforme minandone il senso di urgenza. Il necessario ribilanciamento dell’economia verso un maggior peso della domanda interna diventa ora più difficile da accoppiare all’obiettivo di un rallentamento molto graduale della crescita complessiva. L’intera area regionale asiatica, sia pure in modo non uniforme, sta perdendo colpi, come ha evidenziato Goldman Sachs nell’abbattere a Ferragosto le stime sul Pil di tutte le vecchie “tigri asiatiche”: Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan.