La Stampa, 17 agosto 2019
Le due Hong Kong: quella che protesta e quella che ha paura
Come si traduce «abbiamo paura di essere picchiati»? Passa per Google translate la comunicazione con la signora Man Kong, titolare dell’omonima trattoria in una stradina di North Point, parecchio oltre la ribelle Victoria Park, l’estremo avamposto cinese di Hong Kong Est, dove la lingua più parlata è il mandarino in virtù della cospicua immigrazione dalla madrepatria, Shanghai e la meridionale Fujian. A digitare sul telefonino è il primogenito, Allen: «Possiamo finire tutti come il giornalista dell’aeroporto». Madre e padre annuiscono seri.
C’è una barriera invisibile tra la città ribelle pronta a un nuovo sabato e domenica ad alta tensione e gli altri che aspettando questo undicesimo weekend di trincea alternano compiacenza, avversione, fretta di riprendere affari e routine. Mentre gli operatori fanno i conti con i danni della crisi estiva che ha visto i consumi contrarsi per la paura degli scontri in strada, i turisti crollare di un terzo rispetto al 2018 e gli investitori tenere botta a denti stretti, la geografia della protesta disegna una mappa urbana disomogenea, che allunga ombre indecifrabili sui prossimi mesi e sulla tenuta sociale di una comunità fiera di essere classificata tra le più sicure al mondo.
«Li pagano, c’è sicuramente una mano straniera dietro questi sedicenti attivisti» afferma un uomo di mezza età sventolando una grande bandiera rossa a stelle gialle davanti al Consiglio Legislativo su cui domina, enigmatico, l’ex quartier generale delle forze britanniche occupato oggi dall’Esercito popolare cinese che, secondo la Basic Law, non può uscire dal grattacielo. È una manifestazione-spot di un centinaio di persone, se la prende con i vessilli americani ostentati da alcuni degli avversari e dura meno di un’ora, ma un certo sostegno a Pechino è reale, così come lo sono i dubbi di una fetta della popolazione apolitica, facoltosa e pragmatica.
«I cinesi fanno quadrato, anche se sono venuti qui scappando dalla madrepatria adesso la difendono» ragiona lo studente e attivista diciannovenne Zdwin. Basta percorrere per intero la linea blu della metro che corre a nord verso il confine con Shenzhen per dargli ragione: man mano che ci si avvicina alla stazione-terminal Lok Ma Chau il paesaggio cambia, torri dormitorio a perdita d’occhio intervallate da montagne scure e vegetazione impenetrabile, Fanling, Sheung Shui, reti wi-fi esclusivamente Huawei, quartieri d’immigrati che arrivano a gruppi di 150 al giorno e commercianti che sconfinano per comprare tonnellate di latte in polvere imbevibile oltre frontiera. Il 2047 qui è adesso, squadra che vince non si cambia.
I ricchissimi
Poi ci sono i ricchissimi nascosti un po’ ovunque e soprattutto nella fortezza di The Peak, irraggiungibile anche dall’afa umidiccia. Da così in alto l’orizzonte è denaro e il denaro non prescinde da Pechino. Quando a luglio i manifestanti si sono spostati al di là della linea del ferry per ammainare la bandiera rossa dalla torre dell’orologio di Tsim Sha Sui, a Kowlon, lo scontro ha visto in prima linea il centro commerciale Harbour City, dove il fastidio per l’argomento si percepisce anche solo domandando a un guardiano: «Non siamo autorizzati a dire nulla, a danneggiarci in questi due mesi e mezzo è stata la protesta e non certo la Cina».
«È curioso perché ad aprile i primi a ribellarsi alla legge sull’estradizione sono stati i cinesi residenti a Hong Kong e l’alta finanza sentendosi entrambi vulnerabili, ne parlarono subito a Pechino dove partecipavano al Congresso», nota James To Kun-sun, uno dei 1200 grandi elettori del Consiglio Legislativo indipendentista della prima ora. Oggi però, tra le perdite economiche e l’incertezza legata anche al braccio di ferro tra Trump e Xi Jinping, la bussola indica lo status quo.
Tolti i lealisti, i Paperoni e i sanculotti: quanto durerà il supporto della classe media ai suoi figli, che i primi temono, i secondi snobbano e gli ultimissimi di una città da un milione di poveri considerano buoni a immolarsi per il voto «ma poi al pane chi ci pensa», come borbotta un barbiere senza età né lavoro in un grigio take-away tra Prince Edward e Sham Shui Po, lontanissimo dal vicino lusso di Nathan road? Un sondaggio pubblicato ieri dal giornale Meng Pao parla di un 30% di persone «non ostili» a un po’ di violenza nel caso il governo persistesse nella sua chiusura, confermando quello precedente della Chinese University di Hong Kong per cui l’83,5% è ancora disposto a chiudere un occhio su alcune reazioni radicali della piazza. L’opinione pubblica per ora tiene: appena l’11% si definisce «cinese» e il 71% non va orgoglioso della madrepatria.
Sebbene il commissario dello sgombero dell’aeroporto Mak Chin-ho ripeta che «i cittadini non chiuderanno un occhio sulla violenza», il nodo è la Cina, che a detta del Pew Research Center è vista sfavorevolmente dal 43% dei locali contro il 32% del 2014. Un nodo potenzialmente scorsoio, come sa bene la comunità cattolica, che dopo aver aperto le chiese per accogliere i dimostranti e dopo il sostegno schietto del vescovo Joseph Ha ha scelto un profilo più basso, chiedendo libertà ma anche una tregua di tre mesi per dialogare.
«Quando ero piccolo la mamma mi spiegava che ero di Hong Kong, mentre oggi sembra quasi che ci debba vergognare» ammette Chen, pacificamente in piazza Chater per il grande sit-in di ieri sera. Sul fronte opposto, gli immigrati di North Point sostengono la stessa cosa.
Ma è un gioco a somma zero, argomenta lo scrittore Kong Tsung-gan, convinto che l’equilibrio “un Paese, due sistemi” sia già rotto: «Il partito comunista investe molto per dividerci, alcuni comprano la propaganda anche se non sono ideologici perché vedono i propri interessi in linea con Pechino. Alla lunga però, se la Cina continua ad allungare le mani sulla nostra economia i tycoon se ne andranno, i vecchi irriducibili moriranno e non resterà più nessuno. Pechino ha già perso la battaglia per il cuore e la mente di Hong Kong». La via è stretta e in salita come la città, oggi si torna in strada e poi domani, e poi: un mantra.