la Repubblica, 17 agosto 2019
Quando Dio decide ciò che dobbiamo mangiare
Ci sono culture che a tavola hanno più totem che tabù e altre che hanno più tabù che totem. In entrambi i casi a fare la differenza è la religione. Perché prescrizioni e proibizioni, passioni e ossessioni, tradizioni e trasgressioni hanno quasi sempre un’origine sacra. Nel senso che le diverse confessioni usano il cibo come materia prima per costruire identità e comunità, per distinguere purità e impurità, per misurare appartenenza e indifferenza.
Un millenario filo doppio lega cibo e devozione. Dietro ogni ricetta c’è un precetto, un obbligo o un divieto. Cosa mangiare, cosa non mangiare, quando, quanto, in quali giorni banchettare, in quali digiunare. Per noi cristiani, di fede o di cultura, è ormai difficile cogliere il nesso tra religione e alimentazione. Ma per gli ebrei e per i musulmani, il rispetto dei comandamenti è ancor oggi il vero termometro dell’osservanza. Basti pensare ai divieti che li caratterizzano. Primo fra tutti quello di consumare carni al sangue, espressamente vietato dalla Torah e dalla Sharia. Al contrario, disco verde per gli animali che ruminano e al tempo stesso hanno l’unghia spartita. Capre, pecore e mucche. Ma niente coniglio, porco, cammello, lepre, cavallo e asino. Sì invece ai pesci, ma a condizione che abbiano pinne e squame. Quindi zero molluschi e crostacei. Altrettanto proibite sono le specie striscianti, come i serpenti, o zampettanti come lucertole, tartarughe e rane. Nel caso ebraico, questo vademecum gastronomico è sancito direttamente dalla legge mosaica, che nel Levitico, il terzo libro dell’Antico Testamento, distingue rigorosamente i cibi consentiti, kasher, da quelli proibiti, taref. Esattamente quel che fanno molte sure del Corano, soprattutto la quinta e la sesta, opponendo gli alimenti permessi, halal, a quelli vietati, haram.
In questo senso il popolo di Israele e quello di Maometto hanno più tabù che totem.
Il cristianesimo, invece, a differenza delle altre due religioni del Libro, si caratterizza per uno scarsissimo numero di tabù. I seguaci del Messia sono assolutamente onnivori. E anche questo è scritto nei testi sacri. A cominciare dai Vangeli, dove non c’è praticamente traccia di interdizioni alimentari. Fino a San Paolo, il grande intellettuale della Chiesa, che nella Lettera ai Corinzi afferma che ogni animale o vegetale in vendita sui banchi del mercato può essere mangiato senza problemi, perché “del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene”. Insomma, niente è cattivo e impuro in sé stesso. L’unico precetto cristiano è la temperanza, la modica quantità come antidoto all’egoismo bulimico. E adesso il detto paolino ritorna, in forma laica, nel mantra dietetico contemporaneo che prescrive di mangiare di tutto un po’. Con la differenza che noi non lo facciamo per timore del giudizio di Dio, ma per paura del verdetto inesorabile della bilancia. Il paradosso è che ora anche noi, figli della secolarizzazione, torniamo ad affidarci alla religione e a domandarle la salvezza, questa volta però del corpo e non più dell’anima. Così si spiega il recente boom planetario del mangiare kasher, e in misura minore di quello halal, che conquistano anche i palati più laici. È una domanda in crescita esponenziale e trasversale, che ha poco a che fare con i sacri comandamenti, tranne quello della genuinità e della pulizia. Così anche chi non prega Javeh o Allah, abbraccia il nuovo credo nutrizionale che sta riempiendo i supermercati di tutto il mondo di alimenti a marchio religioso. Milioni di consumatori si convertono all’azzimo, al falafel, alla carne dissanguata e perfino al sale mosaico, cioè senza additivi. Secondo uno studio del Penn State University College, l’80 per cento degli acquirenti di cibi ebraici non ha nulla a che fare con la Torah. A motivare la scelta, infatti, non è l’appartenenza confessionale, ma il rigore del controllo di rabbini e imam sulla preparazione e sulla confezione dei prodotti che rassicura i consumatori. Evidentemente l’autorità religiosa è considerata più credibile dell’authority alimentare. Chi mangia alla giudia, insomma lo fa per ragioni un po’ etiche un po’ dietetiche. Finendo per caricare la religione di Mosé di funzioni improprie, come quella di tracciare i nostri alimenti. Trasformando il capo spirituale in certificatore materiale. Risultato, un business colossale. Se alla fine degli anni Settanta i prodotti a marchio kasher erano 2.000, adesso sono almeno 150.000, in crescita costante. E visto l’appeal di questa denominazione d’origine consacrata, tutti i grandi marchi alimentari, italiani compresi, si mettono in fila per ottenere il sospirato bollino OU, concesso dalla Orthodox Union, la prima holding planetaria di certificazione ebraica. Nella sede centrale di Broadway opera un inflessibile pool rabbinico coadiuvato da un esercito di tecnologi alimentari, in uno scenario da film di Woody Allen. Morale della favola, siamo in pieno cortocircuito tra fiducia e fede, tra sicurezza e salvezza. Un mondo in preda a mille paure – pesticidi, sostanze cancerogene, Ogm, diossina, grassi idrogenati – non sapendo più a chi credere si raccomanda a Dio. Ecco perché il cibo diventa la nuova religione e la tavola l’altare laico dove si celebra il culto del corpo.