la Repubblica, 17 agosto 2019
Gli indiani si preparano a invadere il Kashmir
L’India festeggia il suo 73° anno di indipendenza dal dominio britannico e bambini vestiti di stracci si fanno largo nel traffico di Delhi per vendere bandiere e souvenir con la scritta:” Mera Bharat Mahan “.
La mia India è grande. Onestamente, è difficile sentirsi grandi in questo momento, perché sembra proprio che il nostro governo abbia perso ogni scrupolo.
La settimana scorsa ha violato lo Statuto speciale con cui l’ex Stato principesco di Jammu e Kashmir aderì all’India nel 1947. Prima, però, a mezzanotte del 4 agosto, ha trasformato l’intero Kashmir in un gigantesco campo di prigionia: 7 milioni di kashmiri sono stati costretti a barricarsi in casa, le connessioni internet sono state interrotte e i telefoni isolati. Il 5 agosto, il ministro dell’Interno ha proposto in Parlamento di revocare l’articolo 370 della Costituzione, che stabilisce gli obblighi derivanti dallo Statuto speciale. La sera dopo, la Legge di Riorganizzazione di Jammu e Kashmir è stata approvata.
La legge priva lo Stato di Jammu e Kashmir del suo status speciale. Lo priva anche della sua qualità di Stato e lo divide in due territori dell’Unione. Il primo, Jammu e Kashmir, sarà amministrato direttamente da New Delhi, anche se continuerà ad avere un’assemblea legislativa locale. Il secondo, il Ladakh, sarà amministrato da Delhi e non avrà un’assemblea legislativa.
I cittadini indiani potranno acquistare dei terreni e stabilirsi nella loro nuova proprietà. I nuovi territori, sostiene il governo, sono «aperti al mercato». Che cosa questo possa significare per la fragile ecologia himalayana del Ladakh e del Kashmir, terre dei grandi ghiacciai, dei laghi d’alta quota e dei cinque grandi fiumi, non è preso in considerazione. Di fatto, «aperti al mercato» può significare anche insediamenti in stile israeliano e trasferimenti di popolazione, come è accaduto in Tibet. Per i kashmiri questa è un’antica paura: il loro incubo ricorrente di essere spazzati via da un’ondata di indiani che vogliono una casetta nella loro valle silvestre potrebbe facilmente avverarsi. In mezzo a queste volgari celebrazioni, tuttavia, ciò che risuona più forte è il silenzio mortale delle strade pattugliate e bloccate del Kashmir e dei suoi abitanti intrappolati e umiliati, circondati dal filo spinato, spiati dai droni, costretti a un totale blackout delle comunicazioni. Che in quest’era dell’informazione un governo possa con tanta facilità isolare un’intera popolazione per giorni e giorni ci fa comprendere quanto sia grave il momento.
La storia
Il Kashmir, dicono spesso, è il lavoro incompiuto della “Partizione”. Se la Partizione, con l’orribile violenza che provocò, è una profonda ferita aperta nella memoria, la violenza di quei tempi, e degli anni successivi, sia in India che in Pakistan, è dovuta tanto all’assimilazione che alla Partizione. In India, il progetto di assimilazione, definito “costruzione della nazione”, ha significato che tutti gli anni dal 1947, l’esercito indiano è stato schierato all’interno dei confini dell’India contro il “suo popolo”. In Kashmir, Mizoram, Nagaland, Manipur, Hyderabad e Assam. Il processo di assimilazione è costato la vita a decine di migliaia di persone. Quello che si sta realizzando oggi, su entrambi i lati del confine dell’ex Stato di Jammu e Kashmir, è l’incompiuto processo dell’assimilazione.
Oggi il Kashmir è forse una delle zone più densamente militarizzate del mondo, se non la più militarizzata in assoluto. Più di mezzo milione di soldati sono stati schierati contro ciò che lo stesso esercito ora ammette essere solo un manipolo di “terroristi”.
Ciò che l’India ha fatto in Kashmir negli ultimi trent’anni è imperdonabile. Si ritiene che nel conflitto siano state uccise circa 70.000 persone, tra civili, militanti e militari. Migliaia di persone sono “scomparse” e altre decine di migliaia sono passate nelle camere di tortura disseminate nella valle come una rete di piccole Abu Ghraib. Negli ultimi anni, centinaia di adolescenti sono stati accecati dall’uso di fucili a pallini, la nuova arma preferita dalle forze di sicurezza. La maggior parte dei militanti che oggi opera nella valle sono giovani kashmiri, armati e addestrati sul posto. Fanno quello che fanno sapendo che dal momento in cui prendono in mano un fucile è improbabile che la loro “durata di conservazione” sia superiore a sei mesi. Ogni volta che un “terrorista” viene ucciso, i kashmiri si presentano a decine di migliaia per seppellire un giovane che venerano come uno shahid, un martire.
Le scelte di Modi
Nel primo mandato di Narendra Modi come premier, la durezza del suo approccio ha esacerbato la violenza in Kashmir. Ma ora, a due mesi dal secondo mandato, il governo Modi ha giocato la carta più pericolosa di tutte. Ha gettato un fiammifero acceso in una polveriera.
Se questo non bastasse, il modo vile e disonesto in cui l’ha fatto è vergognoso. Nell’ultima settimana di luglio, con vari pretesti, sono stati trasferiti in Kashmir altri 45.000 militari. Il pretesto più grande è stato che c’era una minaccia “terrorista” pachistana per l’Amarnath Yatra, il pellegrinaggio annuale durante il quale centinaia di migliaia di devoti indù si recano in Kashmir. Il 1° di agosto, alcune reti televisive indiane hanno annunciato di aver trovato lungo il percorso del pellegrinaggio una mina con il marchio dell’esercito pachistano. Il 2 agosto, il governo ha chiesto a tutti i pellegrini di lasciare la valle. Sabato 3 agosto i militari avevano occupato l’intera valle. A mezzanotte di domenica, i kashmiri erano costretti a chiudersi in casa e tutte le reti di comunicazione avevano smesso di funzionare.
L’8 agosto, quattro giorni dopo l’inizio del coprifuoco, Narendra Modi è apparso in televisione. Sembrava un’altra persona. Era scomparsa l’abituale aggressività e il tono irritante e accusatorio. Parlava, invece, con la tenerezza di una giovane madre. La voce gli tremava e gli occhi gli brillavano di lacrime mentre elencava gli innumerevoli benefici che sarebbero piovuti sul popolo dell’ex Stato di Jammu e Kashmir, adesso governato direttamente da Nuova Delhi. Ha evocato le meraviglie della modernità indiana come se stesse educando dei contadini dei tempi feudali usciti da una macchina del tempo. Ha parlato di come i film di Bollywood sarebbero stati nuovamente girati nella loro valle verdeggiante.
Non ha spiegato però perché ai kashmiri fosse imposto il coprifuoco e il blocco delle comunicazioni. Non ha spiegato perché questa decisione sia stata presa senza consultarli. Non ha detto come un popolo che vive sotto un’occupazione militare possa godere dei grandi doni della democrazia indiana.
Le conseguenze
Quando tutta questa farsa finirà, perché deve finire, la violenza si riverserà inevitabilmente dal Kashmir in India. Sarà usata per infiammare l’ostilità contro i musulmani, che sono già demonizzati, ghettizzati, spinti nei gradini inferiori della scala economica e, con terrificante regolarità, linciati. Lo Stato ne approfitterà per stringere il cerchio anche su altri – attivisti, avvocati, artisti, studenti, intellettuali, giornalisti – che hanno protestato.
Il pericolo arriverà da molte direzioni. L’organizzazione più potente dell’India, l’estrema destra nazionalista indù Rashtriya Swayamsevak Sangh, o R.S.S.S., con più di 600.000 membri tra cui Modi e molti dei suoi ministri, ha una milizia “volontaria” addestrata, ispirata alle Camicie Nere di Mussolini. Ogni giorno che passa, la R.S.S.S. avanza in ogni istituzione dello Stato: ha già raggiunto un punto in cui più o meno è lo Stato stesso.
Intellettuali e accademici sono una delle loro maggiori preoccupazioni. A maggio, la mattina dopo che il partito Bharatiya Janata aveva vinto le elezioni generali, Ram Madhav, segretario generale del partito ed ex portavoce del R.S.S.S., ha scritto che gli «avanzi» dei «cartelli pseudo-secolar/liberali che avevano un’influenza e una presa sproporzionate sull’establishment intellettuale e politico del Paese... devono essere eliminati dal panorama accademico, culturale e intellettuale del Paese».
Il 1° di agosto, in vista di questa “eliminazione”, la già draconiana Legge sulla prevenzione degli atti illegali è stata modificata. Un emendamento ora consente al governo di definire qualsiasi individuo come terrorista senza seguire la procedura legale di una denuncia, di un atto d’accusa, di un processo e di una condanna. Mentre il mondo sta a guardare, prende forma l’architettura del fascismo indiano. — © 2019 New York Times News Service Traduzione di Luis E. Moriones