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 2019  agosto 17 Sabato calendario

In morte di Felice Gimondi

Gianni Mura su la Repubblica
Era la tenacia, Gimondi. L’ostinazione, la cocciutaggine, che dicono tipica dei bergamaschi, la dignità, anche. Molti ciclofili pensano che, se non avesse trovato Merckx sulla sua strada, avrebbe vinto come e più di Coppi. La storia, anche quella del ciclismo, non si fa con i se, ma in questa idea c’è molto di vero. Merckx è stato il più forte corridore di tutti i tempi, su tutti i terreni. Gimondi, dopo un paio d’anni, ha imparato sulla sua pelle quanto il rivale fosse superiore, ma non si è mai arreso. E questa è una delle caratteristiche salienti della sua carriera.
Era un amico, per me. Mi fa piacere, nella tristezza, sapere che è morto nuotando, senza nemmeno accorgersene. Un combattente come lui non meritava una fine più penosa. Amici forse eravamo diventati una sera a Diano Marina, dove la Salvarani era in ritiro a inizio stagione. Per i più giovani, va precisato che allora le squadre andavano in ritiro in uno spazio fra Sanremo e Follonica, niente Canarie, niente Namibia, niente mete esotiche. Pedalate sull’Aurelia. Una sera l’ho visto non con la tuta azzurra della Salvarani ma molto intappato: vestito blu, cravatta, scarpe lucidatissime. Uscendo dall’ascensore aveva avuto un attimo di trasalimento vedendomi e m’aveva detto: «Per favore, non scrivere niente, stasera vado a cena con Tiziana». E io non scrissi niente, non mi sembrava un grande scoop, e comunque affari loro. Tiziana era la figlia dei proprietari dell’albergo che ospitava la Salvarani, di lì a poco Felice l’avrebbe sposata. Da quell’episodio era probabilmente nato fra noi un rapporto di fiducia, per cui Gimondi mi aveva autorizzato a pubblicare interviste con lui anche se non l’avevo trovato al telefono. I cellulari, ovviamente, non esistevano. Però esistevano, in quegli anni, tra il ’60 e il ’70, corridori italiani molto forti sia per le gare a tappe che per quelle in linea: Motta, il rivale numero uno, Adorni, Zilioli, Balmamion, Taccone, Bitossi, Dancelli, Durante, Zandegù. E, fuori d’Italia, un Anquetil ancora valido, Poulidor, Ocaña, Fuente, una caterva di velocisti belgi, e poi arriva Merckx.
Gimondi sembrava un predestinato. Non era un signor nessuno, aveva vinto il Tour de l’Avenir e a quello vero, per professionisti, del ’65, Luciano Pezzi lo portò solo perché uno dei gregari previsti per Adorni aveva marcato visita per un’intossicazione da frutti di mare. Al Giro del ’65, vinto da Adorni, Gimondi si era piazzato terzo. Ottimo risultato. Al Tour, gli dissero i fratelli Salvarani prima della partenza, ci vai per dare una mano ad Adorni la prima settimana, poi puoi tornare a casa. Solo che Felice, maglia numero uno-due-tre, come in un gioco di prestigio, indossò la maglia gialla alla prima settimana e non poteva certo ritirarsi. Così continuò e arrivò in giallo a Parigi, dopo un epico scontro con Poulidor sul Mont Revard. E da allora, per inciso, i suiveurs italiani che erano chiamati les macaronì, furono chiamati les Gimondì.
Prima che pedalasse lui, e come pedalava, il suo paese, Sedrina, era noto solo per una pala d’altare dipinta da Lorenzo Lotto. Era una famiglia di poche parole: il padre camionista, la madre postina. Aveva anche ricevuto il nulla osta del parroco, perché consegnava la posta in bicicletta e la gonna ogni tanto poteva alzarsi. Non ostacolarono il figlio ciclista, ma gli dissero chiaro: se vai bene, bene, sennò ti metti a scaricare la ghiaia sul camion anche tu. Ma lui non scaricò mai la ghiaia, andò subito bene. Andava forte sul passo, a cronometro, in salita, unico punto debole lo sprint. Era obbligato, specie nelle gare in linea, a scrollarsi tutti di dosso, altrimenti qualcuno lo avrebbe battuto. Per gli altri, era comodo stargli a ruota e sfruttare il suo lavoro per poi superarlo sul traguardo. Eppure, a ripensarci sembra impossibile, il Mondiale di Barcellona lo vinse in volata. Contro ogni pronostico, ogni regola, ogni logica. Non contro ogni speranza. Ma, normalmente, se un Mondiale se lo giocano in quattro, e quei quattro sono Merckx, Maertens, Gimondi e Ocaña, la vittoria di Gimondi sa di fantascienza. Oppure, scendendo sulla terra, sa di mezzo regalo di Merckx. Che, a un successo del giovane galletto belga Maertens, preferiva la vittoria del suo vecchio nemico-amico Felice Gimondi. Amico perché ogni anno, da quando hanno smesso di correre, Gimondi e Merckx si sono ritrovati una sera a cena con le mogli a parlare dei tempi andati. E il belga riassumeva: «Capivo che era mezzanotte quando Felice si alzava per andare a dormire». Ora, lo piange così: «Stavolta perdo io. Prima di tutto perdo un amico e poi l’avversario di una vita. Lo avevo sentito due settimane fa, sono distrutto».
Merckx aveva un fisico pazzesco, che gli consentiva di tutto: fumare, bere alcolici, mangiare quello che voleva e fare tardi. Gimondi, al confronto, era una specie di monaco, sempre attento a tavola e fuori. L’albo d’oro parla di un Tour, tre Giri, una Vuelta, una Sanremo, due Lombardia, una Parigi-Bruxelles, con l’arrivo davanti a casa di Merckx. Considerando gli avversari, è tanto.
Era molto religioso, ha sempre corso portando alla caviglia un cordino benedetto in non so quale santuario. Con i gregari, tendeva a usare più il bastone della carota. E se ne sarebbe scusato dopo il ritiro. All’inizio della carriera, tanto per dare un’idea, era stato cacciato con ignominia da Sergio Zavoli durante il Processo alla tappa solo perché aveva detto «c’era un po’ di casino in testa al gruppo». Riammesso sul palco dopo qualche giorno, e dopo le debite scuse.
Sentiva molto la corsa, e non gli era facile accettare certe sconfitte. Per rilassarlo, il massaggiatore Iriano Campagnoli, che durante l’anno era infermiere in un manicomio, allora si diceva così, gli raccontava strane storie di matti, che avevano il potere di fargli passare l’arrabbiatura. Molto spesso, parlando di Merckx, diceva: «Quello là». Niente di nuovo, però. Lo diceva anche Bartali di Coppi, e Coppi di Bartali.
Grande agonista, ispido e generoso, Gimondi ha rappresentato l’essenza del ciclismo: lottare, lottare sempre, lottare comunque. Era il suo carattere, e ha avuto il vantaggio di una guida, tecnica e morale, come Luciano Pezzi: gregario di valore ai tempi di Coppi, e prima valoroso partigiano, era stato vicecomandante della formazione di Arrigo Boldrini. Da Gimondi a Pantani, gli ultimi due italiani vincitori del Tour prima di Nibali, la parabola di Pezzi. Era un ciclismo più semplice, più duro, meno tecnologico. Gimondi lo ha attraversato con dignità e forza. È un altro hombre vertical che se ne va.
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Paolo Tomaselli sul Corriere della Sera

Nell’età dell’oro del ciclismo, come brillava Felice Gimondi, il più grande corridore italiano dopo i padri della patria, Coppi e Bartali: «Mi vedrei bene sul podio dietro a loro, anche per rispetto degli anziani...» scherzava lui, che da ragazzo era stato battezzato come il «nuovo Fausto». È stato tradito dal cuore, in vacanza a Giardini Naxos, a poco più di un mese dal suo 77° compleanno. Quasi una beffa per un faticatore bergamasco che ha costruito la sua leggenda sulle montagne del Tour vinto a 22 anni, su quelle del Giro e della Vuelta, sul pavé della Roubaix e sulla collina del Montjuic di Barcellona, dove diventò campione del mondo nel 1973.

La lezione eterna che lascia Gimondi, è proprio questa: andare oltre le apparenze, i proprio limiti, i luoghi comuni. Con valori scolpiti nella pietra, a testa alta, ma sempre sui pedali, aspettando la propria occasione, contro il più forte di sempre, Eddy Merckx. E contro una muta di avversari feroci e di classe, come Ocana, Adorni, Anquetil, Poulidor, Maertens, Motta. Di quegli anni ruggenti, Felice raccontava che «se non avessi trovato l’Eddy avrei vinto come Coppi. Però essere stato un suo grande avversario dà più valore a tutto quello che ho fatto».

Perché per battere Merckx, Gimondi ha sempre dato di tutto e anche di più «e quando lui si è ritirato mi sono sentito svuotato. Lui era una parte di me». Per questo ha conquistato la gente e l’immaginario popolare: negli anni del grande cambiamento Felice andava controvento, vinceva attaccando, volava a cronometro. Con quell’aria da duro dei film western, uno che parla con i fatti e che a forza di essere vento è entrato nelle case e nei cuori degli italiani, per le vittorie, tante e pesanti, da corridore completo, ma anche per le «bastonate» (così le chiamava) prese dal belga: «Il ciclismo è una grande scuola di vita perché ti insegna a perdere. E questo ti torna utile quando smetti e devi trovare il tuo posto nel mondo reale».

Ma il figlio della postina di Sedrina, che sostituiva la madre nelle consegne in bici, il senso della realtà non lo ha mai perso nemmeno in sella, affidando ai suoi diari le annotazioni del professionista e i pensieri di «un uomo corretto e onesto, che ha fatto anche le corse in bici, certo. Ma le cose che contano sono altre».

Quello che contava per lui erano le figlie Norma e Federica: «Il mio più grande rimpianto è essere arrivato in ritardo alla nascita della seconda, per il maltempo di rientro da una corsa». E la compagna di una vita, Tiziana, conosciuta dopo una Sanremo, in un albergo di Diano Marina gestito dai nonni di lei. C’è una foto bellissima di quegli anni, con loro due in riva al mare. Lei ha appena scritto «Felice» sulla sabbia. E niente potrà mai cancellare quel nome.




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Paolo Tomaselli

Nell’età dell’oro del ciclismo, come brillava Felice Gimondi, il più grande corridore italiano dopo i padri della patria, Coppi e Bartali: «Mi vedrei bene sul podio dietro a loro, anche per rispetto degli anziani...» scherzava lui, che da ragazzo era stato battezzato come il «nuovo Fausto». È stato tradito dal cuore, in vacanza a Giardini Naxos, a poco più di un mese dal suo 77° compleanno. Quasi una beffa per un faticatore bergamasco che ha costruito la sua leggenda sulle montagne del Tour vinto a 22 anni, su quelle del Giro e della Vuelta, sul pavé della Roubaix e sulla collina del Montjuic di Barcellona, dove diventò campione del mondo nel 1973.

La lezione eterna che lascia Gimondi, è proprio questa: andare oltre le apparenze, i proprio limiti, i luoghi comuni. Con valori scolpiti nella pietra, a testa alta, ma sempre sui pedali, aspettando la propria occasione, contro il più forte di sempre, Eddy Merckx. E contro una muta di avversari feroci e di classe, come Ocana, Adorni, Anquetil, Poulidor, Maertens, Motta. Di quegli anni ruggenti, Felice raccontava che «se non avessi trovato l’Eddy avrei vinto come Coppi. Però essere stato un suo grande avversario dà più valore a tutto quello che ho fatto».

Perché per battere Merckx, Gimondi ha sempre dato di tutto e anche di più «e quando lui si è ritirato mi sono sentito svuotato. Lui era una parte di me». Per questo ha conquistato la gente e l’immaginario popolare: negli anni del grande cambiamento Felice andava controvento, vinceva attaccando, volava a cronometro. Con quell’aria da duro dei film western, uno che parla con i fatti e che a forza di essere vento è entrato nelle case e nei cuori degli italiani, per le vittorie, tante e pesanti, da corridore completo, ma anche per le «bastonate» (così le chiamava) prese dal belga: «Il ciclismo è una grande scuola di vita perché ti insegna a perdere. E questo ti torna utile quando smetti e devi trovare il tuo posto nel mondo reale».

Ma il figlio della postina di Sedrina, che sostituiva la madre nelle consegne in bici, il senso della realtà non lo ha mai perso nemmeno in sella, affidando ai suoi diari le annotazioni del professionista e i pensieri di «un uomo corretto e onesto, che ha fatto anche le corse in bici, certo. Ma le cose che contano sono altre».

Quello che contava per lui erano le figlie Norma e Federica: «Il mio più grande rimpianto è essere arrivato in ritardo alla nascita della seconda, per il maltempo di rientro da una corsa». E la compagna di una vita, Tiziana, conosciuta dopo una Sanremo, in un albergo di Diano Marina gestito dai nonni di lei. C’è una foto bellissima di quegli anni, con loro due in riva al mare. Lei ha appena scritto «Felice» sulla sabbia. E niente potrà mai cancellare quel nome.




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Aldo Grasso sul Corriere

Gianni Brera durante il Giro d’Italia del 1976, chiamò Gimondi «Nuvola Rossa». Come il capo indiano che lottò contro la prepotenza dei coloni americani. Una storia di coraggio, di orgoglio e di umiltà. Una storia di chi deve combattere contro un conquistatore di nome Eddy Merckx, il «cannibale»: «Io ho avuto la sfortuna di trovare sulla mia strada Merckx». Non lo avesse incontrato, probabilmente il palmares di Gimondi sarebbe molto più ricco, ma la sua avventura sportiva molto meno interessante. Come canta Enrico Ruggeri in «Gimondi e il Cannibale»: «Rapporti che devo cambiare, lo stomaco dentro al giornale per me, e devo restare lucido. E quanta strada che verrà, ma non mi avrai; io non mi staccherò. Guarda la tua ruota e io ci sarò». Come non ricordare il Tour de France del 1965? Adorni, capitano della Salvarani, si ritira e il giovane ciclista bergamasco conquista la maglia gialla, alla sua prima esperienza al Tour: è un risultato che ha dell’incredibile. Durante la corsa Gimondi resiste agli attacchi di Puolidor sul Mont Ventoux e si aggiudica la cronometro di Versailles, che chiude definitivamente i conti e gli consegna il trionfo parigino. Poi arriva quello che divora ogni corsa. Felice lo guarda, lo studia, aspetta solo il suo momento. La vita contadina gli aveva insegnato la pazienza, la fatica aveva fatto il resto: così arriva il 1973 e il Mondiale conquistato allo sprint sul Cannibale (quarto). Una sorta di rivincita contro il destino. Grande faticatore, scalatore eccelso, dotato tecnicamente sebbene meno esplosivo dello storico rivale Merckx, Gimondi aveva una straordinaria capacità di leggere la corsa. E proprio il campione belga ha dato di lui il giudizio più premiante: «Felice ha sempre accettato la legge della strada, la legge del più forte, spesso ero io ma tante volte è stato lui il più forte. Un uomo, un ciclista tenace, testardo, uno che non mollava mai».

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Giorgio Viberti su la Stampa

Se n’è andato uno dei più grandi corridori di sempre. Felice Gimondi, bergamasco di Sedrina, è morto improvvisamente in seguito a un malore mentre stava facendo il bagno nelle acque di Giardini Naxos, in Sicilia, dove era in vacanza con la moglie Tiziana. Vani tutti i tentativi di soccorrerlo e di rianimarlo: Gimondi è morto nel tardo pomeriggio di ieri. Il prossimo 29 settembre avrebbe compiuto 77 anni.
Ciclista di talento e di grande scaltrezza, era stato professionista per 15 stagioni, dal 1965 al 1979, vincendo praticamente tutto grazie a doti non comuni sul passo, in montagna, a cronometro e anche nelle volate ristrette. Gimondi è uno dei sette corridori di sempre ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri: il Giro d’Italia nel 1967, 1969 e 1976 (con 9 podi in totale: record), il Tour de France nel 1965 e la Vuelta di Spagna nel 1968. Ai quali aggiunse però tanti exploit di un giorno, fra i quali alcuni prestigiosissimi: una Sanremo, una Roubaix, due Lombardia e soprattutto il Mondiale di Barcellona 1973, quando in una volata a quattro riuscì a battere il velocista fiammingo Maertens, lo spagnolo Ocaña e il Cannibale belga Merckx.
Aveva dato le prime pedalate da ragazzo e quasi senza volerlo, nella sua Sedrina dove la mamma faceva la postina e ogni tanto chiedeva al piccolo Felice di aiutarla per le consegne in bicicletta. Come Coppi, che aveva scoperto passione e talento lavorando da garzone macellaio e portando carne e salami di casa in casa, così il vice postino Gimondi convinse i genitori che valeva la pena dargli fiducia con il ciclismo: se poi avesse fallito, si sarebbe adattato a rilevare il mestiere di trasportatore che faceva suo padre. Non ce ne fu bisogno, perché dopo numerose vittorie da dilettante, fra le quali il Tour de l’Avenir 1964, l’anno seguente arrivò il giorno del debutto nel ciclismo professionistico e ancora una volta fu il caso a indicargli la via. Dopo aver aiutato il capitano Adorni a vincere il Giro, finendo comunque sul podio (terzo), Gimondi benché giovanissimo fu chiamato in extremis dalla Salvarani per fare anche il Tour, dopo che uno dei gregari già designati si era ammalato. «Tranquillo, mi aiuti per una settimana e poi torni a casa» gli disse Adorni, che alla fine lo convinse ottenendo per lui anche un aumento dell’ingaggio. Fu invece Adorni a tornarsene dopo pochi giorni in Italia per un problema fisico, dopo che invece Gimondi aveva già preso la maglia gialla alla terza tappa. Felice la mollò soltanto per un paio di frazioni a metà Grande Boucle, poi se la riprese e la portò fino al Parco dei Principi di Parigi, battendo in classifica il favorito ed eterno secondo Poulidor. Non aveva ancora 23 anni, più o meno la stessa età di Egan Bernal, l’ultimo vincitore del Tour. «Mi ero segnato su un guantino i nomi dei velocisti più pericolosi e sull’altro quelli dei rivali per la classifica» ci aveva confessato non molto tempo fa, per spiegarci come in fondo lui a quel Tour credeva fino dal primo giorno.
La sua grandezza
Altro che semplice comparsa! Era questa la grandezza di Gimondi: intelligenza, astuzia e cura dei minimi particolari, oltre naturalmente a classe e talento cristallini. Un solo rammarico nella sua stupenda carriera: essere finito nella stessa era di Merckx il Cannibale. «Ma proprio grazie a Eddy le mie vittorie valevano di più, perché lui è sempre stato superiori a tutti. La sua schiena e la sua nuca per me non avevano segreti, le conoscevo a memoria perché stavo sempre a inseguirlo». Ma non è mai stata sudditanza, la sua, e tanto meno vergogna, se mai la consapevolezza di potersela giocare con il più forte di sempre. Per il quale Gimondi aveva enorme rispetto e persino una forma di venerazione, tanto che quando Merckx fu squalificato per un controverso caso di doping mentre stava dominando il Giro d’Italia 1969, Felice la mattina seguente non volle indossare la «sua» maglia rosa. «Non mi appartiene, è di Eddy». Proprio Merckx ieri, in lacrime e disperato, ha tributato l’ultimo saluto al suo splendido rivale di mille battaglie: «Sono distrutto. Stavolta sono io a perdere. Addio caro amico, non ti dimenticherò mai».