la Repubblica, 15 agosto 2019
Jean Paul Gaultier si racconta
«Avevo nove anni quando vidi in TV uno spettacolo delle Folies Bergère. Rimasi così incantato da quei costumi meravigliosi che il giorno dopo a scuola mi misi a disegnarli, cristalli e piume compresi. Il professore se ne accorse, e per punirmi mi obbligò a stare in piedi sulla sedia con il disegno attaccato sulla schiena, mentre incitava i miei compagni a deridermi. Lo fece per umiliarmi, ma invece loro iniziarono a farmi i complimenti, a chiedermene altri. Così dall’essere una specie di paria divenni popolare, e capii che tutto può essere bello e degno di essere raccontato». L’episodio che Jean Paul Gaultier svela sorridente in un ottimo italiano, con qualche accenno di spagnolo, oggi sarebbe catalogato come bullismoma erano altri tempi. Resta il fatto che è in quei frangenti che s’è formata la strepitosa estetica dello stilista sessantasettenne (con l’energia di un trentenne: rischia anche di cadere dal divano, tanta è l’enfasi del discorso). Gaultier è stato il primo a puntare sul genderless, a portare in passerella modelle curvy e donne mature, a elevare la moda della strada a lusso sfilando a Les Halles, negli anni Ottanta tra i quartieri più malfamati di Parigi: «nessun proclama, è che non avevo soldi». Buona parte di ciò che oggi è “innovativo” Gaultier lo ha già immaginato, disegnato, cucito. Anche per questo sta avendo tanto successo il suo Fashion Freak Show, un mix tra cabaret, burlesque, satira, défilé, biografia e musical che, dopo Parigi, Spoleto e Londra pare essere in trattative per Broadway. «La sfilata è di per sé una messa in scena: ci sono le luci, la musica, la regia. Quindi in un certo senso lo faccio da sempre».
Gaultier mette molto di sé su quel palco, dall’orsacchiotto Nana, la sua prima modella (altro che Madonna: la prima guêpière con le coppe a cono l’ha fatta per lei a dieci anni), a Francis Menuge, l’amatissimo compagno scomparso per Aids nel 1990; il tutto mescolato ai suoi abiti più spettacolari. E pensare che non ha mai studiato moda in vita sua. «Disegnavo perché così piacevo agli altri, la moda per me era relegata alle riviste che compravo – o rubavo, quando non avevo soldi –. Avevo mandato il mio portfolio in giro, ma senza uno scopo preciso. Poi, il 24 aprile del 1970, il giorno del mio diciottesimo compleanno, mi chiama Pierre Cardin; vado al colloquio con mia madre, che non si fidava: ho iniziato così». Quando nel 1976 lancia la sua linea, ha chiara una cosa: niente dogmi. «Ho sempre messo tutto in dubbio. Quando ho scoperto che Babbo Natale non esisteva, mi sono detto “allora nemmeno la fatina dei denti è vera. Quindi, nemmeno Dio”. Così con la moda: da Jean Patou, una maison dove ho lavorato dopo Cardin, tutto quello che era beige e oro era chic. E chi l’ha detto? A me per esempio fa schifo». Si può solo immaginare la reazione all’epoca dei suoi colleghi a un simile approccio. «Noi Francesi prendiamo sul serio la moda perché siamo dei frustrati che non prendono nulla con leggerezza.
Invece da voi la cultura del bello è la norma, mica è un caso che il mio Francis fosse di origine italiana! Qui siamo fissati con la democrazia, ma in realtà tutti vogliono essere re senza lavorare. E visto che non si può, dicono no a tutto». Tornando allo show, in mezzo alle icone personali che lo stilista porta in scena, tra una Madonna onnipresente, una Josephine Baker moderna e una simil-Anna Wintour, c’è anche Prince. Nonostante il loro incontro non sia stato dei migliori.
«È che non conosco bene le lingue», spiega ridendo lui. «Lavoravo ai costumi de Il quinto elemento, il film di Luc Besson (uscito in Italia nel 1997, ndr ). Prince aveva il ruolo di DJ Ruby Rhod, andato poi – a causa mia, per l’appunto – a Chris Tucker. Luc e io dovevamo incontrarlo in hotel a Parigi: io arrivo in anticipo, e inizio a mostrargli i bozzetti. Uno degli abiti ha un enorme panier sul retro e io, per spiegarglielo, mi metto a indicarmi il fondoschiena dicendogli che è un faux cul, alla francese. Solo che lui lo intende come fuck you (letteralmente, “fottiti”). Grande errore. In quel momento arriva Luc, ma lui ci guarda malissimo e se ne va.
Abbiamo capito cos’era accaduto solo quando il suo manager ha scritto che rifiutava la parte perché “i costumi sono troppo gay, e inoltre a Prince non va bene che simboleggino un fuck you”». Gaultier si ferma in mezzo alla sala (s’era alzato per mimare meglio la vicenda). «Che peccato. Ma quanto abbiamo riso!».