la Repubblica, 15 agosto 2019
Le due vite di Ötzi
Noi lo guardiamo da un oblò, un vetro in cornice, dopo aver fatto una ordinata fila, per il poco tempo che ci viene concesso. Ma lui guarda noi, da ventotto anni. Apparentemente impassibile, una idea deve essersela fatta di questo Paese che gli sfila davanti, già oltre cinque milioni di visitatori (certo, anche stranieri): l’Italia vista da Ötzi, la mummia del Similaun. Strano destino, il suo. Relativamente breve, la sua vita felice. Campò una quarantina d’anni, molti per l’epoca, nell’età del rame, tra il 3300 e il 3100 avanti Cristo. Morì trafitto da una freccia dopo un abbondante pasto a base di speck, riposò in pace per oltre cinque millenni, protetto da due entità in via di estinzione: il ghiacciaio e l’oblio. Poi venne riesumato, esaminato e messo al centro di liti, contestazioni, dicerie. Gli è toccato conoscere quel che siamo oggi: capaci di vivere il doppio, ma di sprecare il quadruplo.
Ricominciò, per lui, un giorno di fine estate, mentre due escursionisti tedeschi, marito e moglie, risalivano i declivi dell’Alto Adige. Era il 19 settembre 1991. Sono passati 28 anni o forse no. Il partito con il maggior numero di consensi (si chiamava Democrazia Cristiana) puntava a elezioni anticipate, dovessero pure tenersi in un periodo inedito e improbabile (sotto Natale). D’altronde le parti sociali accusavano: «Qui non si governa, danno i numeri al lotto». Un movimento emergente (chiamato Lega, Lombarda) riportava un primo, significativo successo in un consiglio comunale, quello di Milano, spingendo una spaventata maggioranza (Dc-Psi) a votare per l’esclusione dal voto degli immigrati in caso di referendum consultivi. La Rai condannava se stessa: i suoi vertici deploravano, dopo averlo mandato in onda, un programma considerato uno spot per il partito di maggioranza. Solo più tardi nelle redazioni arrivò quella notizia di difficile interpretazione per chi scienziato non era. Laddove lavoravo io all’epoca si levò un grido: «Han trovato un mummione!». Perfino il cinismo giornalistico ebbe un cedimento all’arrivo delle prime immagini. C’era qualcosa in quel volto scarnificato che ispirava compassione, nel senso più autentico. Con il senno di poi era semplicemente uno specchio: la stava provando lui, per noi. Da lì in poi ha assistito, apparentemente impassibile, a battaglie sul suo nome e nel suo nome. La prima fu per il possesso, o la detenzione, sinonimi di fatto. Italia e Austria se lo contesero. L’Italia vinse, ma gli concesse un nome tedesco: Ötzi, dalle Alpi Ötztaler, che chiamiamo comunemente Venoste. L’ultima è ancora in corso e riguarda la sua possibile ricollocazione. Ora sta nel Museo Archeologico, in pieno centro, a pochi passi dalla tormentata piazza Walther, trasformata in cantiere. Ogni giorno quasi mille persone si mettono in fila per entrare, la folla si mescola con quella di chi aspetta l’autobus, esonda nei vicoli, ma (a volte) pure nei negozi. Per alcuni Ötzi porta affari, per altri è ingombrante. Tra le proposte di ricollocamento ha prevalso, ma non in modo definitivo, quella di un investitore austriaco, signore di Innsbruck e di mezza Bolzano, di cui sta rifacendo l’immagine: edifici, centri commerciali, un progetto per l’aeroporto. E uno per Ötzi: un museo dedicato su una collina abbandonata, raggiungibile in due minuti con la funivia, per tetto una scalinata da cui ammirare la città. Realizzato da uno studio norvegese: ultramoderno, con un’estetica, quella sì, lontana dalla cartolina del centro storico. Gli si oppongono l’editoria e l’associazionismo locali.
Mentre questa battaglia è destinata a durare, quella per il riconoscimento economico ai coniugi Simon che lo trovarono è finita con 175 mila euro versati nel 2010. Il marito, Helmut, non se ne avvantaggiò: era morto sei anni prima, cadendo in un dirupo durante un’altra delle sue escursioni in alta quota. A Ötzi è toccata anche la maldicenza della superstizione. Si è detto che esiste una maledizione della mummia, come per un faraone e qualche cantante. A riprova, la morte di sei persone che ci hanno avuto a che fare. Premesso che due di loro flirtavano con i precipizi e quindi con il rischio, una mente logica sa che, scelto un oggetto o un evento, considerata la sfera di persone che vengono a contatto (decine), nel giro di vent’anni è più che probabile che sei di queste muoiano, essendo un destino piuttosto comune agli esseri umani. La maldicenza resta, è difficile da estirpare, soprattutto in un tempo in cui è lo sport più popolare e si alimenta gratuitamente attraverso una rete che moltiplica l’efficacia del passaparola. E allora, inevitabile, è arrivata anche per un uomo di oltre cinquemila anni fa l’esperienza così tristemente contemporanea della fake news. Nel suo caso, la troverete ancora ai primi posti googlandolo: “aveva sperma nel retto”. Seguono battute e meme di pessimo gusto. Tutto nato da un equivoco di traduzione, semi e seme, sorvolato con disinvoltura pur di propagare la gaia novella. Notizia vera invece quella per cui Brad Pitt si è fatto tatuare, dodici anni fa, i contorni di Ötzi, determinando un immediato incremento di visitatori. E lui là, a guardarli oltre il vetro, a vederli confrontare la sua apparenza con l’immagine sul cellulare del braccio di un attore hollywoodiano (qualunque cosa fosse), felici di constatare: «È lui! È proprio lui! Come su Brad!».
Intanto passavano le repubbliche, fino a non capire più in quale ci troviamo. Bolzano da città laboratorio che era ha ridotto la sua capacità di sperimentazione. Per alcune classifiche resta la città più vivibile d’Italia, per tutte è la più cara. Non trova portalettere, perché nessuno si candida. Non trova gli stupratori di una quindicenne, perché non esistevano. Nella sua cella gelida Ötzi rimane nella sua innaturale posizione, come imbracciasse uno scudo immaginario, volesse proteggersi da qualcosa: probabilmente il futuro.