Corriere della Sera, 15 agosto 2019
Intervista a Usain Bolt
C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui l’atletica era lui. Usain St. Leo Bolt – detto Lampo – da Trelawny, contea di Cornwall, a Nord-Ovest della Giamaica; terra di schiavi, caffé e sprinter. Di quello che ha lasciato scolpito sul tartan dai Giochi di Pechino 2008 al Mondiale di Londra 2017, un commiato a faccia in giù sulla pista per stiramento a 50 metri dal traguardo della 4x100, sappiamo tutto: otto ori olimpici (il triplo hat-trick è stato guastato dalla positività in Cina del compagno di staffetta Nesta Carter, scoperta postuma dalla Wada), 11 mondiali (il percorso perfetto se non fosse per la clamorosa falsa partenza di Daegu 2011 e le precarie condizioni in cui si presentò, ormai 31enne, a Londra), due record del mondo individuali (9”58 nei 100 e 19”19 nei 200) datati 2009 che ancora aspettano lo sbarco sulla terra di un alieno in grado di batterli, uno di squadra (36”84), più tutto il resto.
Ciò che non sappiamo, archiviato a malincuore il tentativo di realizzare il vero sogno di bambino – lui figlio di Wellesley e Jennifer, cresciuto scalzo giocando a pallone e cricket nei campi intorno al negozietto di alimentari di famiglia a Sherwood Content —, il calcio, è cosa Bolt faccia oggi, 33enne (il 21 agosto) e scapolo, miliardario e icona interplanetaria, tutt’oggi rimpianto da un’atletica senza guizzi né primi attori che corre verso il Mondiale di Doha di fine settembre, dove ai quaranta gradi del deserto qatariota passeremo il tempo a rimpiangerlo. Il Lampo ci risponde dalla Giamaica, casa: è tornato per festeggiare, in jeans neri e camicia tradizionale, il giorno dell’indipendenza della sua isola.
Buongiorno Bolt, come sta a poco più di un mese dal primo Mondiale senza di lei?
«Benissimo! Lavoro per la mia Fondazione e i miei sponsor, esco la sera, ogni tanto vado a correre, ho mille progetti. Sono così impegnato che, ora come ora, non ho in programma di andare a Doha».
Senza rimpianti?
«Nessun rimpianto».
Non ha la tentazione di andare in Qatar a farsi idolatrare dal mondo dell’atletica?
«No. Mi sono serenamente ritirato e vivo la vita del pensionato felice».
Mi permetta di dubitare: qualche tempo fa, dalle immagini di lei in palestra postate su Twitter, si era diffuso incontrollato il tam tam di un ritorno in pista.
«L’ho sentito anch’io e sono morto dal ridere. A giugno ho giocato un match per beneficenza, Soccer Aid a Stamford Bridge per l’Unicef: ero un po’ fuori forma e, per tornare a regime, mi sono dato da fare con pesi e macchine. Ecco il perché dell’allenamento intensivo: nessun mistero nè clamoroso ritorno all’orizzonte».
Nemmeno a Tokyo 2020 in staffetta? Magari per riprendersi l’oro che le è stato scippato dal caso doping del maledetto Carter?
«Per carità. Con l’atletica competitiva ho chiuso. E su quell’oro ho messo una pietra sopra. Qualcuno ha violato le regole e tutta la squadra ci è andata di mezzo. Non sono contento, ma non ci penso più».
E come è andato il match per Soccer Aid a Londra?
«C’erano Eric Cantona, Mo Farah, Roberto Carlos, John Terry, Didier Drogba, Jamie Carragher: proprio da un suo errore, è nato il mio gol. Io avevo la fascia da capitano e giocavo falso nove: il mio numero sulla maglia era 9.58!».
Diventare un calciatore professionista, però, è rimasta una missione incompiuta.
«Ci ho creduto. Ma per arrivare al livello che mi era richiesto dal campionato australiano ci voleva tempo e io non sono stato capace di stare dietro a tutti i miei impegni ed allenarmi a sufficienza. Si dice che servano 10 mila ore di allenamento per avere successo, e a me sono mancate. Non è facile passare dal top dell’atletica al calcio professionistico».
Argomento chiuso?
«Gioco ancora in Giamaica e per beneficenza, ma a 33 anni direi che la mia carriera nel calcio è finita».
Gli Usa stanno per riprendersi la supremazia nel suo sprint dopo undici anni di Jamaican power, Bolt. Che effetto le fa?
«Spero nelle donne: Shelly Ann Fraser, Elaine Thompson, Briana Williams e le altre. Gli uomini dovranno lavorare sodo per tornare al vertice. Christian Coleman e Noah Lyles hanno vinto i trials americani, sono in testa alle liste e non vedo come non possano essere i favoriti a Doha. Nelle staffette, invece, abbiamo una chance: con il testimone in mano tutto può succedere».
Può anche succedere, nel nostro piccolo, che un ragazzo brianzolo di nome Filippo Tortu spodesti il monumento Pietro Mennea da piedistallo nei 100 (9”99).
«Lo ricordo a Londra nelle batterie dei 200, benché non avessimo corso contro. Non conosco personalmente Tortu ma posso dire una cosa: chiunque scende sotto i 10” nei 100 metri può essere definito uno sprinter di classe. È ancora giovane, può crescere molto».
Da veterano ha un buon consiglio per Filippo?
«Lavori duro senza ascoltare nessuno. Tenga i piedi per terra e non si lasci schiacciare dalla pressione. Io ho avuto la fortuna di essere nelle mani di un coach che sapeva esattamente cosa mi serviva per crescere, Glen Mills. Dovevo pensare solo ad allenarmi».
Ma insomma Bolt: dell’atletica non le manca proprio niente?
«La gara, non certo l’allenamento. E l’energia di uno stadio pieno. Quell’adrenalina non l’ho mai più ritrovata».