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 2019  agosto 15 Giovedì calendario

Intervista a Quentin Tarantino. Parla di Hollywood

È il primo film di Tarantino a fare a meno del produttore Harvey Weinstein. È il suo film più bello e malinconico dopo Jackie Brown. Tre giorni nella vita di due attori in declino nella Hollywood del 1969, incarnati dalle due uniche star del momento: Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), ex divo del cinema che si guadagna da vivere girando western per la televisione, e il suo doppio, la controfigura Cliff Booth (Brad Pitt), un eroe di guerra sospettato di aver ucciso sua moglie. La coppia, fittizia, trae ispirazione da due vere: Burt Reynolds e Hal Needham, Steve McQueen e Bud Ekins. Sopra le loro teste, un angelo, Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie), stellina in ascesa e sposa incinta di Roman Polanski, trucidata con alcuni amici, il 9 agosto del 1969, dalla follia assassina di un branco di hippy, la Famiglia Manson...
Nel 1969, lei aveva 6 anni…
«È stato l’anno in cui mia madre e il mio patrigno mi hanno portato per la prima volta a visitare Hollywood...».
Lei è stato cresciuto da sua madre. In «Kill Bill», sognava forse per lei un destino eroico attraverso il personaggio di Uma Thurman…
«In un certo qual modo, sì».
Dov’è sua madre in «C’era una volta…»?
«La coppia che parte in escursione a cavallo allo Spahn Ranch, il covo della Famiglia Manson, è una proiezione di mia madre, Connie, e del mio patrigno Curt. Ricordo che nel 1969 mi portavano a cavalcare...».
Le scene girate allo Spahn Ranch, vecchio set cinematografico dove la Famiglia Manson si era rifugiata, sono horror puro...
«Non ne avevo parlato al tecnico del montaggio da diversi giorni, e a un certo punto mi è venuto a cercare sul set, e mi ha detto: “Quentin, non lo sapevo che stavamo girando un film horror! La scena allo Spahn Ranch fa quasi più paura di Non aprite quella porta!”».
In questa scena Bruce Dern incarna il personaggio che doveva recitare Burt Reynolds, se non fosse morto...
«È stato un vero shock! Era così felice all’idea di recitare nel film. Burt, che viveva in Florida, è venuto una prima volta in California per la lettura del copione con tutti gli attori, e una seconda volta per ripetere la sua scena con Brad Pitt e Dakota Fanning. Poi è tornato a casa ed è morto. Stava ripetendo le battute con l’assistente e si è alzato per andare in bagno. Lì ha avuto una crisi cardiaca. Io non ci volevo credere, ma ben tre persone mi hanno confermato che le ultime parole di Burt Reynolds sono state quelle che io avevo scritto per lui!... Mia madre mi ha chiamato Quentin proprio per il personaggio che lui interpretava, Quint Asper, nella serie Gunsmoke. E Burt lo sapeva. La prima volta che ci siamo incontrati, all’anteprima del film Hazzard, mi è piombato addosso all’improvviso, accompagnato dal figlio quattordicenne. “Quentin, vorrei presentarti Quinton”, mi ha detto. Quel nome gli piaceva talmente tanto che l’ha dato anche a suo figlio!».
Il suo film celebra le cadute reali e gli effetti speciali anteriori all’utilizzo delle immagini computerizzate. Come ha fatto a ricreare gli edifici e gli ambienti reali della Los Angeles del 1969?
«È stato un lavoro complicato... Poi ci sono voluti anche i permessi del comune per girare al Westwood Village, su Hollywood Boulevard e Riverside Drive. Abbiamo spiegato che il film era una lettera d’amore rivolta a Los Angeles e sia i residenti che i turisti l’avrebbero apprezzato. E così è stato. C’era tanta gente che affollava il set per vedere com’era una volta l’Hollywood Boulevard. Sono sicuro che fra tre anni non sarà più possibile girare film in questi luoghi. Los Angeles sta cambiando a velocità impressionante...».
Il suo film è un mausoleo alla Hollywood del 1969. Si può dire altrettanto per quello che Hollywood è diventata da allora?
«Esattamente! Non ho provato a raccontare tutta la storia di Hollywood né della controcultura, mi interessa innanzitutto il percorso umano dei personaggi che nel 1969 vivono ai margini della società. Mi piaceva il lato “un giorno nella vita” di Rick, Cliff e Sharon. Tutto il resto è un semplice sfondo».
In fin dei conti, se da un lato ci sono le storie dei buoni e dei cattivi che Hollywood ci propina, dall’altro c’è la vita, molto più ambigua. Come si sente lei nella Hollywood post #Metoo?
«Che vuole che le dica, io faccio i miei film. Poi al pubblico possono piacere oppure no».
Ha fatto leggere la sceneggiatura a Roman Polanski?
«No, il copione è rimasto segreto».
Vorrà fargli vedere il film?
«Penso che prima o poi sarà curioso di vederlo. Spero che gli piacerà».
Il suo film narra la fine di un’era, sia per Los Angeles che per il cinema. Oggi siamo entrati in quella successiva, con la nascita delle piattaforme di streaming. Accetterebbe di lavorare per Netflix?
«Non farò film per Netflix. Una serie, perché no, ma sarei più propenso ad andare verso Hbo. A dire il vero, quando ho terminato la sceneggiatura di C’era una volta… non ho cominciato subito le riprese. Stavo attraversando un momento di grande ispirazione e l’ho sfruttato per buttar giù altri due progetti. Un’opera di teatro, ugualmente ispirata alla Hollywood di quell’epoca... Ho scritto inoltre cinque episodi di Bounty Law, la serie fittizia in cui recita Rick Dalton (Leonardo DiCaprio). Non so ancora se li adatterò a telefilm o mini serie da 30 minuti ciascuno, in bianco e nero. Adesso che mi sono rituffato nelle serie televisive degli anni Cinquanta, ho riscoperto il fascino della loro narrazione e mi sono lasciato coinvolgere fino a dirmi: “E se provassi a scriverne una anch’io?”».
All’uscita di «The Hateful Eight», lei diceva di voler girare ancora due film prima di andare in pensione. Ne ha appena terminato uno. Il prossimo sarà forse «Star Trek»?
«Non lo so ancora. Ho proposto un’idea, è stata approntata una sceneggiatura. Ne riparleremo …».
E sarà il suo ultimo film?
«Si vedrà».