Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  agosto 15 Giovedì calendario

Dario Fo, a 50 anni dal Mistero Buffo


Era il 30 maggio 1969 quando Dario Fo entrò, con Franca Rame, nell’Aula Magna della Statale di Milano durante un’assemblea organizzata dagli studenti. Nasce così la prima messinscena sperimentale di Mistero Buffo davanti a tremila ragazzi: «Alla fine ci fu un’esplosione festosa veramente sconvolgente – ricordava il grande attore Premio Nobel – ma i più felici eravamo io e Franca. Insieme avevamo rovesciato un luogo comune invalicabile, volevamo dimostrare che nel nostro Paese non esistono soltanto la poesia e la cultura aristocratica, ma c’è anche quella popolare, che testimonia un’autonoma vitalità».
Straordinario impasto comico-drammatico, le cui radici affondano anche nelle sacre rappresentazioni medievali, nelle giullarate e nella Commedia dell’Arte, è stato rappresentato in tutto il mondo, con oltre cinquemila allestimenti non solo nei teatri, ma nelle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche e perfino nelle chiese. Per celebrarne i cinquant’anni è prevista una serie di eventi, a cominciare da un nuovo allestimento dell’opera: lo spettacolo andrà in scena nello stesso giorno, il primo ottobre, e sullo stesso palcoscenico, il Teatro Ariston di Sestri Levante (Genova), dove debuttò in forma ufficiale mezzo secolo fa. Stavolta sarà interpretato da Mario Pirovano, attore-fabulatore da sempre legato alla Compagnia Fo Rame.
«Mistero Buffo – osserva Jacopo Fo, che prosegue nel percorso tracciato dai genitori – ha dato vita a un inedito stile teatrale. Quel genere di monologo, all’epoca, veniva fatto solo nei cabaret e non nei contesti di alto livello. L’one man show era una novità assoluta, poi è stato ripreso ovunque, anche nel teatro “colto”. Io avevo 14 anni e ricordo bene la decisione dei miei di passare a una formula teatrale non convenzionale. Erano stati sollecitati da un operaio che li aveva apostrofati dicendo: è bello il vostro teatro, ma non lo fate per le classi più umili. Così nacque l’idea di costruire una struttura scenica mobile e smontabile, adatta a girovagare per andare incontro a chi non poteva permettersi di accedere ai teatri importanti».
Ma Jacopo, che in questi giorni, nel centro culturale della Libera Università di Alcatraz da lui fondato vicino Gubbio, conduce laboratori di tecniche recitative per «attori, registi e aspiranti curiosi», ricorda altri particolari di quell’avventura artistica. «Un’avventura che divenne pericolosa. Mio padre e mia madre, che con i loro spettacoli si permettevano di denunciare la corruzione del sistema politico-sociale italiano, subirono aggressioni, intimidazioni. A Dario, una volta, fu tirata una cassetta di escrementi, ma anche gli spettatori venivano colpiti: a Palermo chi aveva assistito allo spettacolo trovò l’auto distrutta dai vandali. E Franca venne rapita, torturata, stuprata...».
A Franca Rame è dedicato un altro omaggio: Mistero Buffo parti femminili, di cui è protagonista Lucia Vasini, il 23 novembre all’Auditorium Moscheri di Trambileno (Trento) e poi in tournée. È un testo basato su antichi canovacci, tra cui il racconto della Nascita di Eva che, adulta, si ritrova da sola nel Paradiso terrestre, e lo storico monologo di Maria alla croce. Prima, il 19 settembre, esce il libro di Jacopo, Com’è essere figlio di Franca Rame e Dario Fo (Guanda), da cui è tratto l’omonimo spettacolo, interpretato dall’autore, in scena il 31 ottobre al Teatro Garibaldi di Settimo Torinese. «Cerco di rispondere alla domanda che mi hanno fatto milioni di volte. Di certo non ho ricevuto un’educazione conformista e, sin da piccolo, ero abituato a viaggiare con loro o a restare a casa da solo: mamma mi lasciava le lasagne in frigo, i soldi necessari e partiva con papà. Se volevo andare a scuola bene, altrimenti mi firmavo le giustificazioni. Non mi hanno inculcato i principi di disciplina e sacrificio, bensì quelli di passione e desiderio; non il “dovere”, ma il “volere”; non la punizione, ma la spiegazione dello sbaglio commesso. D’altronde soprattutto mio padre era stato educato in modo libertario».
Per esempio? «Mia nonna raccontava di quando Dario, 5 anni, e suo fratello Fulvio, 3, si buttarono dal secondo piano con l’ombrello aperto per sperimentare il paracadutismo. Oppure quando provarono ad attraversare il lago Maggiore su una bagnarola: affondarono e furono recuperati da un pescatore. E poi la volta che, vestiti da indiani, legarono la sorella Bianca e le diedero fuoco: fu salvata dai vicini. La cosa strana è che mia nonna prima li massacrava con il battipanni, poi si vantava di avere dei figli geniali. Già all’epoca era convinta che il maggiore avrebbe preso il Premio Nobel a Stoccolma».
Dario e Franca, due genitori ingombranti? «Certo – ribatte Jacopo – e per questo ho iniziato a fare il vignettista con lo pseudonimo Giovanni Karen. Ho ripreso il mio vero nome quando iniziai a collaborare a “Tango”: sul supplemento dell’ “Unità” era giusto che firmassi con il mio cognome. D’altro canto, lavorando al “Male”, avevo già preso denunce per presunti oltraggi al pudore e alla religione». Il Dna non è roba da poco e Jacopo intraprende poi la strada del teatro: «L’unica lezione di mio padre quando iniziai a recitare durò due minuti. Venne in camerino e sentenziò: “Quando sali sul palco ricordati che hai davanti amici che si sono messi il cappotto per venire a vederti”. Mia madre aggiunse: “Non fare il gigione, non usare scorciatoie per far ridere in maniera banale, perché poi si dimenticano di quello che hai detto”. Insegnamenti che mi sono rimasti dentro».
L’esempio morale più importante? «La fermezza di Dario quando Franca tornò a casa ricoperta di sangue dopo il rapimento: un sasso, impassibile. Ebbi voglia di sferrargli un pugno, ma poi capii che era l’unico modo per affrontare la situazione. L’onestà di Franca: una sera, nel bagno di un locale pubblico, ascoltò, non vista, il progetto orchestrato da un transessuale e una modella per coinvolgere un ministro democristiano in uno scandalo sessuale. Si attivò per avvertire la vittima che, grazie a lei, scampò il pericolo. Pur trattandosi di un avversario politico, non sopportava l’idea di comportarsi in modo disonesto. Ma non mi rivelò mai il nome del ministro».