Corriere della Sera, 15 agosto 2019
Fernanda Pivano, a 10 anni dalla morte
Sono passati dieci anni da quando Fernanda Pivano se n’è andata, il 18 agosto 2009. Era in una casa di cura con tre amici che le tenevano la mano, al riparo dalla canicola di Milano. Accanto c’erano alcuni dei suoi libri, una copia dell’Antologia di Spoon River e una spilla con il volto di Barack Obama e la scritta «Hope – Speranza».
Ponte verso gli Stati Uniti dai tempi in cui l’Italia era fuori dal circuito culturale internazionale, sognatrice e pacifista convinta, Nanda all’inizio del XXI secolo si era dichiarata sconfitta perché il pianeta era cosparso di sangue. Tuttavia, ancora si aggrappava al sogno libertario portato dall’America dopo la caduta del fascismo.
Dieci anni fa gli autori americani parlavano poco di politica e i maschi bianchi erano ancora i dominatori degli scaffali delle librerie. Oggi gli stessi sentono l’urgenza di confrontarsi su questo argomento come nel Dopoguerra e la diversificazione è diventata uno dei punti principali della letteratura d’Oltreoceano.
Nanda è sempre stata accostata a Ernest Hemingway e William Faulkner, in seguito ai ragazzi della Beat Generation e del Brat Pack. Troppo spesso viene dimenticato che è stata anche tra i primi in Italia a parlare di Ralph Ellison e James Baldwin, che da un paio d’anni vive una rinascita grazie al documentario I Am Not Your Negro di Raoul Peck e che credeva nell’amore civico per prevenire il bisogno di violenza, filosofia di base del movimento Black Lives Matter. Nanda non ha tradotto solo le opere di Sherwood Anderson e Francis Scott Fitzgerald, ha tradotto anche quelle di Richard Wright.
I suoi lavori, ai quali molti si sentono in diritto di fare le pulci, sono ricchi di salti immaginativi entusiasmanti e lei sarebbe di sicuro felice di sapere quanto oggi molte associazioni e riviste americane si diano da fare per spingere le case editrici nazionali a pubblicare molta più letteratura straniera.
E cosa direbbe del movimento #MeToo? Se le chiedevi di Charles Bukowski, Nanda rispondeva: «Era così carino». Molti hanno visto l’indimenticabile intervista Rai in cui è stata capace di uscire indenne dalle provocazioni di un alterato Jack Kerouac, che flirtando le disse che la sua bellezza le avrebbe attirato l’odio di molti. Per una donna del secolo scorso essere attraente e allo stesso tempo intelligente non era per niente facile e, ammettiamolo, la strada per la parità è ancora lunga. Lei ne conosceva la fatica.
Tranne poche eccezioni, è inutile negare che Nanda preferiva circondarsi della compagnia di uomini, ma la sua amicizia per autrici come Alice B. Toklas, Erica Jong e Patti Smith – Natalia Ginzburg tra le italiane – rivelano la sua lealtà e la sua capacità di godere del successo delle colleghe. Nanda si prendeva cura di loro e le difendeva dagli attacchi della critica. È stata prima allieva e poi mentore di tantissime donne. Il benevolo e reciproco aiuto fra le generazioni è forse uno degli aspetti a cui il femminismo contemporaneo più ambisce.
Nanda Pivano amava l’irresistibilità di Toni Morrison, la singolarità di Gertrude Stein e l’umorismo di Dorothy Parker. La sua passione per la vita contagiava tutti. Non c’è da stupirsi se gli artisti americani più giovani di lei hanno fatto a gara per entrare sotto la sua ala protettrice. Non c’è stata volta che Lou Reed e Laurie Anderson non si liberassero dagli impegni per cenare con lei quando si trovavano nella stessa città. Sarebbe stato bello sentirla commentare il Premio Nobel a Bob Dylan. Nanda spingeva per la sua candidatura già nel 1996.
Diplomata al decimo anno di Conservatorio, la sua passione per la musica è stata una delle forze degli ultimi anni. Riconosceva l’importanza del rock nell’evoluzione della sensibilità americana e considerava i cantautori i nuovi poeti. Da sempre ha urlato a tutti che i poeti hanno la forza di cambiare il mondo.
Un giorno in cui la senescenza aveva preso il sopravvento, era scoppiata in lacrime perché aveva scoperto che Fabrizio De André era morto. «Non quella volta. È morto di nuovo», ha risposto quando nel tentativo di consolarla le è stato detto che da quel giorno erano passati dieci anni. «Ma possiamo morire anche undici volte», ha continuato appena accortasi dell’abbaglio, con un sorriso d’intesa e le ciglia umide.
A novant’anni Nanda continuava a leggere, recensire e sostenere i libri di scrittori giovani e nuovi. Li voleva incontrare e conservava la speranza che l’umorismo fosse la cura per tutto, forse anche per la sua età. La sua capacità di narratrice lasciava senza fiato, ma l’aspetto che chi la conosceva a fondo amava di più era la sua fragilità, che arrivava nei momenti più impensati. Era allora che veniva voglia di prendersi cura di lei.
Nanda è stata una donna dal rigore vittoriano che ha lottato più per i diritti e la libertà degli altri che per sé stessa, un simbolo di chi non giudica e lotta per trovare una strada propria, contro ogni censura.
Eternamente ragazza, ha fatto della fiducia nei giovani e negli incontri un’arte senza pari. Ha trovato il coraggio di cambiare la dolorosa crudezza della vita quotidiana. Cos’è questa se non speranza?