il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2019
Tutte le vittime di Rosemary’s baby
Prima, durante e dopo. Come in un incubo circolare, la nefasta reputazione di Rosemary’s Baby sancisce il non plus ultra dei film maledetti. Ontologicamente diabolico, fatalmente sinistro, funestamente disturbante, teso e sospeso a oscurare la luce viziata della città che non dorme mai. Il ribaltamento par excellance dell’atto più nobile in natura – dare la vita – rivolto all’entità mortifera, la macabra polarizzazione della perfida borghesia che nutre la placenta della sua ipocrisia, fertilizzando il Male, inneggiando al figlio di Satana. Ma tutto questo non basta, né è bastato, ad allontanare il pubblico di allora come di oggi da quest’opera magnetica e assoluta, che risponde al termine di capolavoro, liberando la qualifica da ogni enfasi.
Sopravvissuto a mille inferni, Roman Polanski non si cura più (chissà) dei possibili malefici insiti nel suo film del 1968: quali anticorpi estremi sono bastati l’Olocausto, una moglie morta ammazzata, un’accusa di stupro con reiterati arresti, prigionie, fughe, processi, estradizioni e letterali “cacce all’uomo” internazionali a conferirgli l’aura di immortale, con buona pace di demoni e fantasmi, sempiterne presenze davanti e dietro al suo sguardo. Lo ritroveremo presto alla Mostra veneziana l’immenso polacco nato a Parigi nel 1933 (il 18 agosto compie 86 anni) a decretare il suo J’accuse, mutuando per sé l’affaire Dreyfus e concorrendo a quello che sarebbe il suo primo Leone d’Oro. Non serve un genio per capire che l’adattamento del romanzo di Rosemary’s Baby non poteva che dirigerlo lui, il bersagliato inquilino di un terzo piano abitato da imprevisti e tragedie.
Date le premesse, la maledizione parte da lontano. È il 1880 quando l’imprenditore Edward Cabot Clark decide di fare una follia: edificare un condominio per ricchi a Manhattan, in pieno Upper West Side che all’epoca era disabitato: un vero deserto come il Dakota da cui non casualmente prende il nome. Soprannominato inizialmente “Clark’s Folly”, l’aberrazione (all’epoca i ricchi non abitavano nei condomini) fatta palazzo neogotico di dieci piani ottiene comunque un ampio consenso, ma porta alla rovina il suo ideatore che cade in bancarotta e muore nel 1882, impossibilitato dunque a vederne l’inaugurazione avvenuta nel 1884.
Divenuto nel tempo residenza di un’élite trasversale, The Dakota è designato da Polanski nel 1967 quale emblematica ambientazione per gli sposini Woodhouse: qui Rosemary è destinata a compiere la propria discesa agli inferi, dal concepimento al parto del suo baby-monstre. Le riprese del film contemplano gli esterni dell’edificio mentre gli interni sono ricostruiti in studio, ma tanto basta al reciproco contagio: la casa stregata, già fatale al suo costruttore mentre era ancora in progress, diviene nel dicembre del 1980 il teatro del peggior assassinio dello star system, quello di John Lennon. Da allora il lussuoso condominio è “marchiato” dall’infausto evento.
Nell’impossibilità di distinguere il portatore insano del possibile maleficio, l’unica ipotesi è che The Dakota e Rosemary’s Baby abbiano sommato le rispettive iatture. Ponendo fosse solo un caso che l’ex Beatle era un caro amico di Mia Farrow, anche l’esistenza dell’attrice sembra esser stata indelebilmente segnata dal thriller demoniaco di cui è protagonista a soli 22 anni. Il suo tormentato divorzio da Frank Sinatra avviene durante le riprese del film, con i documenti a lei recapitati sul set: le successive vicissitudini private della Farrow tra amori e figli problematici (con una figlia morta per malattia) arrivano fino alla cronaca attuale, coinvolgendo soprattutto colui che dal 1980 al 1992 è stato il suo compagno, Woody Allen. Una storia dagli effetti tuttora maledetti, la loro, che riecheggia quella ancor più tragica fra il giovane Polanski e la sua bellissima moglie Sharon Tate, nota vittima sacrificale della follia omicida di Charles Manson e co. Massacro cardine della Hollywood criminale del tempo, l’uccisione dell’attrice avviene nell’agosto del 1969 quando era incinta di otto mesi: il medesimo tempo trascorso dall’uscita nelle sale americane di Rosemary’s Baby.
Contestualmente sotto maleficio appaiono le sorti dei due produttori: da una parte William Castle, minacciato di morte da chi, già a pochi giorni dalla distribuzione, ne presagiva il riverbero maligno – il produttore si ammala poco dopo –, e dall’altra Robert Evans, accusato di traffico di stupefacenti e con la salute danneggiata da tre infarti consecutivi. E peggior destino tocca al musicista polacco Krzysztof Komeda, già collaboratore del cineasta ne Il coltello nell’acqua e Cul-de-sac: scaraventato incidentalmente da una scalinata da un amico durante un “party alcolico”, entra in coma istantaneamente e ne muore dopo alcune settimane.
Difficile non pensare che il diavolo ci abbia messo la coda, e se così fosse ha un nome e cognome: Anton LaVey. Costui, esoterista e fondatore della Chiesa di Satana, sembra abbia offerto consulenze ad hoc al regista polacco, apparendo persino in una scena del film. Benché la sua presenza non sia mai stata accreditata né confermata, il suo coinvolgimento è sicuro rispetto alla cronaca nera di qualche anno a venire, nella fattispecie legata a un nome tristemente famigliare a casa Polanski: Charles Manson, con il diabolico cerchio a chiudersi fatalmente. Chi ancora avesse dubbi sulla portata della maledizione che circonda Rosemary’s Baby farebbe bene a stare in guardia.