il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2019
Le maximulte ai giganti del web
A inizio luglio accade una cosa divertente: quando i giornali diffondono la notizia della multa che Facebook dovrà pagare – previo accordo – all’antitrust americana per l’affaire Cambridge Analytica, le azioni del social network invece di crollare iniziano a salire. Le contrattazioni si chiudono con un rialzo dell’1,8 per cento. In pratica, i 5 miliardi dell’accordo concluso con la Federal Trade Commission (Ftc), che saranno poi confermati qualche settimana dopo, non hanno intaccato la forza di Menlo Park, tantomeno ne hanno scalfito l’immagine di transatlantico del digitale di fronte agli investitori. Con 55 miliardi di dollari di ricavi a fine 2018, un margine operativo superiore al 40 per cento, una percentuale effettiva di tasse del 14 per cento, riserve per 40 miliardi, ogni multa delle autorità risulta essere più lieve di una carezza. L’ultima, è stata solo un solletico.
L’America lenta e la poca paura
Il problema, con le sanzioni, è proprio questo. Non sono mai abbastanza pesanti da spaventare i colossi o da metterli davvero in crisi, costringendoli a modificare le loro abitudini. In America, poi, la politica delle multe è ancora lontana, nonostante la protezione della concorrenza contro l’egemonia degli over the top sembri destinata a essere il fulcro delle prossime campagne elettorali e la nuova battaglia del Congresso. A febbraio, la Federal Trade Commission ha creato una propria task force per monitorare la concorrenza nel settore tecnologico e parallelamente il dipartimento di giustizia americano avrebbe aperto un’indagine antitrust sulle maggiori aziende tech. A parte questo, però, finora l’intervento è stato praticamente nullo.
La lezione (parziale) dell’Europa
Diversa, invece, la situazione in Europa. La Commissione Ue, negli ultimi anni, è stata molto attiva nell’indagare e sanzionare le attività anticoncorrenziali delle aziende. La dg Competition, guidata da Margrethe Vestager, ha inviato un messaggio molto chiaro: ‘vi teniamo d’occhio’. Ma le indagini e le sanzioni decise sono bastate?
Google, il più multato e il meno penalizzato
Prendiamo ad esempio Google. L’anno scorso l’antitrust europeo ha condannato il gigante di Mountain View al pagamento di 4,3 miliardi di dollari di multa per abuso di posizione dominante nell’installazione obbligatoria delle app della sua famiglia sui dispositivi Android. Anche in quel caso, pur trattandosi della multa più alta comminata, il titolo non ha avuto grossi scossoni se non un lieve calo a ridosso della notizia e ancora meno ne ha risentito il bilancio del 2018. Il quarto trimestre ha riportato utili per azione di 12,77 dollari contro i meno di 11 dollari attesi alla vigilia. In cifre assolute, i profitti netti sono stati di 8,94 miliardi. Intanto il giro d’affari saliva del 21,5 per cento a 39,28 miliardi di dollari rispetto a pronostici inferiori ai 39 miliardi, 31,69 miliardi contro 31,33 attesi escludendo il pagamento ai partner che dirigono il traffico. Per l’intero anno, insomma, è aumentato a 136,82 miliardi dai 110 miliardi dell’anno precedente.
A marzo di quest’anno, poi, un altro solletico: nonostante la multa da 1,49 miliardi di euro comminata sempre dalla Commissione Ue, Alphabet ha chiuso il primo trimestre del 2019 con utili in calo ma sempre superiori alle stime. Stessa dinamica dopo l’annuncio di un accordo di “svariati milioni” (ancora incerta la cifra) con la Ftc per le violazioni di Youtube che avrebbe raccolto dati ed esposto i bambini alla pubblicità sulla piattaforma senza l’autorizzazione dei genitori. Il titolo, dopo qualche ora di valori altalenanti, ha poi recuperato tutto.
Amazon, intoccabile ma sotto controllo
Nel 2017, sempre la Commissione Ue ha imposto ad Amazon di restituire al Lussemburgo 250 milioni di euro di tasse aggirate grazie a un accordo che fu ritenuto “aiuto di Stato” per averle permesso di godere di un trattamento fiscale agevolato. Come (non) conseguenza, il bilancio 2017 si è chiuso con i ricavi saliti del 30 per cento (177,8 miliardi di dollari) e un utile netto salito del 30 per cento a circa 3 miliardi di dollari nonostante gli ingenti e continui investimenti e una politica di utili quasi sempre al minimo. A luglio di quest’anno, è stata annunciata una nuova indagine sempre della Commissione Ue e questa volta per l’uso che Amazon fa dei dati dei venditori indipendenti che usano la piattaforma per i loro prodotti. Esito ed eventuale multa, però, arriveranno probabilmente tra qualche anno.
La Mela e quei soldi che nessuno vuole
Probabilmente una delle multe più grandi è stata invece comminata ad Apple nel 2016: 13 miliardi di euro da versare al fisco dell’Irlanda, sede della filiale europea dell’azienda, per pareggiare i conti e ripianare l’ammanco totalizzato dal 2003 al 2014. Secondo le accuse della Commissione, fino al 2003 il colosso californiano avrebbe pagato l’un per cento di tasse sui propri profitti europei, per scendere poi addirittura allo 0,005 per cento del 12,1 per cento previsto per legge: un trattamento fiscale ancora più vantaggioso delle già consistenti agevolazioni concesse dall’Irlanda alle aziende che scelgono l’isola come sede legale nel Vecchio Continente. L’azienda di Cupertino ha terminato di pagare nel 2018, i soldi sono stati depositati in un fondo di garanzia e il conto è bloccato in attesa dell’esito del processo d’appello chiesto da Apple (che richiederà anni). Il paradosso? Anche il ministero delle Finanze irlandese ha presentato ricorso alla corte di Giustizia Ue: è contrario al pagamento.