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 2019  agosto 14 Mercoledì calendario

Intervista A Pankaj Mishra

Mettere sotto accusa il liberalismo economico». Per Pankaj Mishra, scrittore e saggista indiano, bisogna partire da una sorta di “critica della ragion pura” per poter salvare quello che c’è di buono nella democrazia liberale – oggi in crisi in buona parte del mondo occidentale – separandola dagli eccessi del capitalismo. «Il quale, lasciato a se stesso, è una bestia capace di distruggere tutto», ammonisce l’autore di L’età della rabbia (il suo saggio più noto, pubblicato in Italia da Mondadori), nato 50 anni fa in India da una famiglia di bramini, figlio di un ferroviere e sindacalista, diventato uno dei commentatori più autorevoli del New Yorker e del New York Times.
La liberaldemocrazia è obsoleta, come sostiene Vladimir Putin, o semplicemente non sta tanto bene, per parafrasare i fratelli Marx?
«Il mio problema con questo tipo di domande è: perché mai dovremmo rispondere a un brutale autocrate come Putin, che non solo impedisce una vera democrazia nel proprio Paese, ma ha tramato per comprometterla in Europa, con le interferenze nella Brexit, in Italia e in altri paesi, e negli Stati Uniti, con l’elezione di Trump? Non siamo più all’epoca della guerra fredda, in cui bisogna reagire a ogni mossa dell’avversario».
Ma la salute della democrazia liberale, di questi tempi, è un problema che va oltre Putin: il populismo sembra rinnegarla in molte parti dell’Occidente.
«E infatti un dibattito interno all’Occidente, lasciando stare Putin, è sicuramente necessario.
Cominciando dal fare chiarezza su un punto: liberalismo è un’etichetta a cui si danno differenti significati. Due in particolare, il liberalismo politico, inteso come difesa degli ideali di libertà, e il liberalismo economico, diventato l’asservimento di tutto all’ideale del profitto. Due liberalismi in conflitto tra loro».
Un conflitto di lunga durata.
«Certamente. Prendiamo John Stuart Mill, il grande filosofo che nasce come icona del liberalismo politico. Ma quando si rende conto che esso viene offuscato sempre più dai meccanismi dell’economia di mercato, allora il suo pensiero vira in direzione del socialismo. Nel corso del Novecento, la nobile idea del liberalismo viene minata gradualmente da una forma di capitalismo che crea ineguaglianza, oppressione, ingiustizia».
Secondo lei, quindi, il capitalismo non sarebbe il motore del progresso umano, ma il “cattivo” che conduce la democrazia liberale sulla strada sbagliata?
«La relazione fra capitalismo e democrazia è sempre stata contorta. Il capitalismo nasce come fede dei ricchi. Non a caso inizialmente era contrario al suffragio universale. Perfino l’ Economist, il settimanale oggi considerato bastione del liberalismo e dunque della democrazia, in un editoriale di Walter Bagehot, il suo più famoso direttore, era contrario al voto per tutti. Nel liberalismo autentico non c’era spazio per la democrazia di massa: soltanto le persone più istruite potevano votare».
Il suffragio universale, tuttavia, c’è poi stato…
«C’è stato un cambiamento graduale sul piano politico, ma sempre di più, nel frattempo, il liberalismo si è alleato con i titani dell’industria e con l’aristocrazia finanziaria, risultando in un rapporto difficile con la democrazia. L’abbiamo visto in Italia prima dell’ascesa del fascismo».
Ma nel dopoguerra il capitalismo ha permesso la ricostruzione e diffuso benessere in tutta Europa.
«L’ideologia liberale non ha sempre bisogno della forza per affermarsi. Ciò di cui ha bisogno è l’espansione imperialista, realizzata dall’Impero britannico per gran parte del secolo scorso e con altri metodi dagli Stati Uniti quando ne sono diventati il successore».
Oggi la democrazia liberale è minacciata da populisti, sovranisti, nazionalisti. Mi dica almeno un modo concreto per difenderne i migliori valori.
«La crisi odierna è una crisi che la democrazia liberale ha creato con le proprie mani. La si può affrontare in un solo modo, per conto mio: con una rigorosa critica del liberalismo economico. Bisogna mettere sotto accusa una classe dirigente che ha dato mano libera all’economia di mercato, permettendo all’estrema destra di vincere consensi tra popolazioni che si sentono abbandonate dalla sinistra».
La risposta allora è il socialismo?
«Il socialismo è nato per mitigare i peggiori eccessi del capitalismo.
In tal senso è il vero erede del cristianesimo: più che una filosofia economica, a mio avviso rappresenta una tradizione morale. Per lungo tempo è stato identificato con la fallimentare economia centralizzata dell’Unione Sovietica. Ma è sul piano morale che il suo messaggio ha ancora un senso e per questo oggi tanti giovani tornano a dirsi socialisti».
La storia dunque non è finita nel 1989, diversamente da quello che annunciò l’ormai famoso saggio di Francis Fukuyama?
«La fine della storia era un’illusione, per la semplice ragione che il capitalismo, senza rivali, diventa una bestia: può distruggere tutto, dal clima del pianeta all’armonia sociale. Ed è quello a cui stiamo assistendo oggi nel mondo».