la Repubblica, 14 agosto 2019
Quando Epstein mi disse che conosceva i segreti dei suoi amici potenti
Quasi esattamente un anno fa, il 16 agosto 2018, andai a trovare Jeffrey Epstein nella sua immensa residenza di Manhattan.
Al termine della nostra conversazione, durata circa 90 minuti, la cosa che più mi colpì fu che Epstein conoscesse un’incredibile quantità di persone ricche, famose e potenti, e che aveva fotografie che lo dimostravano. Sosteneva di sapere tante cose su queste persone, anche potenzialmente dannose o imbarazzanti, come dettagli sulle loro presunte tendenze sessuali e sul loro consumo di droghe a scopo ricreativo.
Quando ho saputo del suicidio di Epstein, uno dei miei primi pensieri è stato che molti uomini importanti e anche alcune donne devono aver tirato un sospiro di sollievo: qualsiasi cosa sapesse, Epstein se l’è portata con sé nella tomba.
Durante la nostra conversazione, Epstein non fece mistero del suo scandaloso passato – si era dichiarato colpevole di aver indotto alla prostituzione delle ragazze minorenni ed era schedato come autore di reati sessuali – e riconosceva di essere un paria nella buona società. Allo stesso tempo, non mi sembrò pentito. La sua notorietà, mi disse, aveva reso tante persone disposte a fidarsi di lui. Tutti hanno dei segreti, mi fece notare, anche se, rispetto ai suoi, sembravano innocui. La gente si confidava con lui tranquillamente, senza provare imbarazzo.
Non avevo mai incontrato Epstein prima di allora. L’avevo contattato perché avevo sentito dire che stava prestando una consulenza a Elon Musk, l’amministratore delegato di Tesla, allora in difficoltà.
Quando lo contattai, Epstein mi concesse subito un’intervista. Insistette perché ci incontrassimo a casa sua, di cui avevo sentito dire che era la più grande abitazione monofamiliare di Manhattan. È molto probabile: in un primo momento, passai senza fermarmi davanti all’edificio, sulla 71esima Strada Est, perché sembrava più un’ambasciata o un museo che una casa privata. Accanto alle imponenti doppie porte c’era una targa in ottone lucido con le iniziali “J.E.” e un campanello.
Suonai e mi aprì la porta una ragazza, che mi salutò con un accento probabilmente dell’Europa dell’Est. Non saprei dire quanti anni avesse, ma era poco più che adolescente, forse una ventina. Dato il passato di Epstein, la cosa mi colpì come un po’ troppo compromettente.
Perché Epstein poteva volere che la prima impressione di un giornalista fosse quella di una ragazza molto giovane che gli apriva la porta di casa?
La ragazza mi fece strada. Salimmo una scala monumentale che ci condusse fino a una stanza al secondo piano che si affaccia sul museo Frick, dall’altra parte della strada. Era una stanza silenziosa, con una luce tenue e l’aria condizionata molto bassa. Qualche minuto dopo, entrò Epstein. Indossava un paio di jeans e una polo. Mi diede la mano e mi disse di essere un mio grande ammiratore. Aveva un grande sorriso e dei modi affabili. Era snello e pieno di energia, forse per tutto lo yoga che mi disse di praticare. Era indiscutibilmente carismatico. Prima di lasciare la stanza, mi mostrò una parete piena di fotografie incorniciate. Mi indicò un’immagine a figura intera di un uomo in abito tradizionale arabo. «Questo è MBS», disse, riferendosi a Mohammed bin Salman, il principe ereditario dell’Arabia Saudita. Epstein disse che il principe ereditario era andato a trovarlo molte volte, e che si sentivano spesso.
Mi portò in una grande stanza sul retro della casa. C’era un grande tavolo con una ventina di sedie. Epstein si sedette a capotavola e io alla sua sinistra. Aveva, a destra, un computer, una lavagnetta e un telefono. Mi disse che stava facendo alcune operazioni in valuta estera.
Dietro di lui c’era un tavolo pieno di fotografie. Ne notai una di Epstein con l’ex presidente Bill Clinton, e un’altra di lui con il regista Woody Allen. Anche il fatto che esibisse fotografie di persone celebri a loro volta implicate in scandali sessuali mi sembrò strano.
Epstein evitò di fornirmi dettagli sul suo lavoro per Tesla. Mi disse che se si fosse saputo che prestava la sua consulenza a quella compagnia, avrebbe dovuto smettere di farlo, perché era “radioattivo”. Disse che ci si era abituato, anche se questo non impediva alle persone di andare a trovarlo, di venire alle sue cene o di chiedergli dei soldi.
Se su Tesla si mostrava reticente, non aveva problemi a parlare del suo interesse per le ragazzine. Mi disse che criminalizzare il sesso con le adolescenti era un’aberrazione culturale e che in certi periodi storici era del tutto normale. Fece notare che l’omosessualità era stata a lungo considerata un crimine ed era ancora punibile con la morte in alcuni Paesi del mondo.
Circa una settimana dopo quell’intervista, Epstein mi chiamò per andare a cena, il sabato dopo, con lui e Woody Allen. Gli dissi che sarei stato fuori città. Qualche settimana dopo, mi invitò a cenare con lui, lo scrittore Michael Wolff e l’ex consigliere di Donald Trump, Steve Bannon. Declinai l’invito.
Passarono diversi mesi. Poi, all’inizio di quest’anno, Epstein mi chiamò per chiedermi se fossi interessato a scrivere la sua biografia. Sembrava quasi supplicarmi. Mi resi conto che quello che cercava veramente era compagnia.
Come suo biografo, avrei dovuto passare ore ad ascoltare la sua storia. Non volendo più avere a che fare con lui, mi sentii sollevato dal fatto di potergli dire che ero già impegnato con un altro libro.
Fu l’ultima volta che lo sentii. Dopo il suo arresto e il suo suicidio, mi chiedo: che cosa avrebbe potuto raccontarmi?