Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2019
Quando la Dc «autoaffondò» Fanfani
Si è mai visto un governo che cade sotto “fuoco amico” con uno dei partiti che sostengono la maggioranza che decide di votare la sfiducia al proprio presidente del Consiglio? In altri termini: esiste un precedente a quello che sta per accadere in Parlamento nei prossimi giorni con Matteo Salvini deciso ad affondare Giuseppe Conte dopo averlo sostenuto per oltre 430 giorni? Una storia politica e parlamentare vivace e irrequieta come quella italiana (29 premier e 65 esecutivi in era repubblicana) presenta un vantaggio: quasi sempre quello che accade si è già verificato. E più ricorrenze si possono rintracciare in uno stesso episodio.
Come quello andato in scena alla Camera martedì 21 aprile 1987, quando si vota la fiducia al governo di Amintore Fanfani, “cavallo di razza” democristiano alla soglia degli 80 anni. È un monocolore Dc con la partecipazione di nove tecnici (ai Rapporti con il Parlamento c’è Gaetano Gifuni, futuro segretario generale del Quirinale con Scalfaro e Ciampi) che però non passa l’esame dell’aula nonostante abbia i numeri per vivere. I favorevoli sono 131 (socialisti, socialdemocratici e radicali), i contrari 240 (comunisti, missini e indipendenti di sinistra) ma determinante risulta l’astensione apparentemente paradossale del gruppo della Dc (193 deputati insieme ai repubblicani), cioè il partito del presidente del Consiglio incaricato. Fanfani prende atto del voto e va al Quirinale. A giugno si tornò a votare.
Era un’operazione concordata a piazza del Gesù: una decina di giorni prima la Dc (come minaccia di fare ora Salvini) aveva fatto dimettere tutti i propri ministri del già moribondo secondo governo di Bettino Craxi (che non aveva rispettato il “patto della staffetta” con Ciriaco De Mita) decretandone la fine. I democristiani puntano a tornare al voto prima della scadenza naturale della legislatura e vogliono togliere al leader del Psi il vantaggio di gestire le elezioni da Palazzo Chigi. Il capo dello Stato Francesco Cossiga, dopo il tentativo fallito del presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, affida a Fanfani (presidente del Senato) l’incarico di formare un governo “elettorale” in vista dello scioglimento delle Camere e del ritorno alle urne.
Ed ecco il secondo motivo, accanto all’«autoffondamento», per cui si può guardare a quel governo Fanfani (il suo sesto e ultimo) come a un precedente, stavolta per orientarsi nell’intricata crisi agostana: fu quello un esecutivo messo in piedi senza pretese di durata ma con l’obiettivo di portare il Paese a nuove elezioni. Un governo di “garanzia” come quello che potrebbe nascere dalle ceneri dell’esecutivo giallo-verde.
Nel 2010 il caso Fanfani venne citato dall’allora leader della Lega Umberto Bossi per prospettare a Berlusconi l’ipotesi (mai realizzata) di votare contro il suo governo, nonostante la Lega facesse parte della maggioranza, allo scopo di anticipare le elezioni. Un piano che il suo successore Salvini vuole attuare davvero.