La Stampa, 13 agosto 2019
L’amicizia fa vivere meglio
Deluderà, forse, i sempre più numerosi e smaniosi consumatori della moderna e sovrabbondante letteratura sulla felicità, questa apodittica affermazione dello psichiatra George E. Vaillant, professore ad Harvard e direttore dello studio longitudinale, “Harvard Study of Adult Development”, unico negli annali della ricerca: «Ciò che rende felici e in salute per tutta la vita è avere delle buone relazioni».
Non la ricchezza, quindi, o la fama o un lavoro più appagante e remunerativo. Non si tratta di un’opinione, ma di una scoperta scientificamente fondata, e per certi aspetti sorprendente, che emerge di uno studio, finanziato del magnate dei negozi WT Grant e partito nel lontanissimo 1938, con l’obiettivo di approfondire lo sviluppo adulto normale, seguendo le persone dall’adolescenza alla vecchiaia.
Vite al microscopio
In corso da 80 anni – dal 1938 ai nostri giorni – è il più lungo e ardimentoso studio che sia mai stato realizzato: un monitoraggio delle vite di 724 uomini, divisi in due gruppi, il primo (noto come Grant Study) composto da studenti del secondo anno dell’Harvard College; l’altro da un gruppo di ragazzi (dai 12 ai 16 anni) dei quartieri più poveri di Boston, reclutati proprio perché appartenenti ad alcune delle famiglie più bisognose e svantaggiate della città di Boston negli anni Trenta. Con un campione allargato successivamente a mogli e figli, la ricerca – che ha generato libri di successo, saggi, articoli, dibattiti – continua ancora oggi, su circa 1000 uomini e donne, studiati a intermittenza per decenni. I ricercatori che si sono alternati nello studio hanno messo insieme un monumentale archivio della vita umana, raccogliendo un’enormità di dati, non solo con l’uso di questionari, ma anche attraverso un monitoraggio continuo della salute fisica e mentale. Sono andati nelle case dei soggetti coinvolti nello studio, li hanno intervistati nei loro salotti, hanno parlato con loro delle preoccupazioni più intime, delle loro vite domestiche, della qualità e della durata dei loro matrimoni, della soddisfazione lavorativa, delle attività sociali. Hanno esaminato il loro sangue, scansionano il loro cervello, studiato le cartelle cliniche compilate dai loro dottori. Tutti i ceti sociali sono rappresentati. Tra loro avvocati e operai, muratori e dottori, tutti protetti dall’anonimato. A parte due del gruppo di Harvard: John F. Kennedy, diventato presidente degli Stati Uniti e il quasi coetaneo Ben Bradlee, direttore del Washington Post all’epoca dello scandalo Watergate.
I protagonisti
L’insieme di tante storie di vita comune apre una finestra straordinaria sul processo di maturazione umana nei suoi aspetti fisici, psicologici e sociali. Alcuni hanno percorso la scala sociale dal basso verso l’alto, altri hanno fatto il viaggio in direzione contraria. Alcune vite sono state segnate dall’alcolismo e ci sono stati casi di schizofrenia. Dei soggetti che facevano parte del Grant Study ne sono sopravvissuti meno di venti – per lo più ultranovantenni – e una quarantina tra i bostoniani. Dire che si tratta di uno studio unico non significa sopravalutarlo. Diversamente da quanto avviene nella maggior parte delle ricerche a lungo termine, che utilizzano dati retrospettivi, basati sulle memorie “filtrate"degli intervistati, i risultati sono prospettici, cosa che ha consentito di approfondire le caratteristiche che possono portare ad una previsione dei risultati. Mettendo insieme ciò che si è raccolto negli anni tra gli uomini di entrambi i gruppi di studio, è emerso che la qualità e la forza delle relazioni, inclusi il matrimonio, la famiglia, gli amici e le relazioni con la comunità, sono alla base di felicità e di benessere.
L’antidoto alla depressione
La solitudine uccide, si potrebbe dire. Le persone più sole sono le meno felici e sono in cattive condizioni di salute fisica e mentale. Essere socialmente collegati agli altri non fa bene solo alla salute fisica. Aiuta anche a scongiurare il declino mentale: lo studio di Harvard ha verificato che le persone sposate, non divorziate o separate, e senza «problemi seri» fino ai 50 anni, hanno affrontato meglio, decenni dopo, i test di memoria. Del resto il ruolo di matrimoni stabili e solidali nell’assicurare un minor rischio di lieve compromissione cognitiva, è confermato da innumerevoli studi, ultimo quello pubblicato di recente (gennaio 2019) dalla rivista “Plos One”.
Insomma, quali sono le lezioni che si possono trarre dalle decine di migliaia di pagine di informazioni generate su queste vite? La potente connessione tra il calore delle relazioni e la salute e la felicità è il fattore su cui insiste lo psichiatra George E. Vaillant, professore ad Harvard e, da decenni impegnato in questo studio: «Buoni rapporti ci conservano più felici e più sani». Due le confortanti conclusioni, qui e ora, nella dura e imperfetta realtà in cui viviamo: alcuni fattori che influenzano la salute e la felicità a lungo termine sono sotto il nostro controllo. Inoltre – ed è un bel sollievo– non sono sotto il completo dominio dei geni. Una buona notizia per chi è stanco di ridurre la medicina e la psicologia al determinismo biologico e al culto e alle promesse di cure contenute in boccetta.