la Repubblica, 13 agosto 2019
Non solo scienziati anche gli chef italiani scappano all’estero
«Faccio lo chef in Thailandia: tra stipendio e premi sommo quasi 6000 euro al mese, per legge non devo lavorare più di otto ore al giorno – qui i controlli sono inflessibili –, i clienti sono entusiasti. Perché mai dovrei tornare in Italia?» A parlare è Miro Mattalia, trentanove anni, dal 19 luglio a capo del ristorante Appia a Bangkok dopo sei anni trascorsi al timone di una delle più amate osterie contemporanee, il Consorzio di Torino. Il suo caso non è isolato, anzi, è emblematico: per quanto Istat e Censis non dispongano di studi dedicati, il fenomeno dei “fornelli in fuga” è sotto gli occhi di tutti: all’estero la figura del “cuoco italiano” è molto richiesta, tante economie viaggiano più veloci della nostra, offrono stipendi più alti e condizioni migliori. Se da noi il mercato del lavoro ristagna, secondo una ricerca Eurostat in Europa ci sono 3,8 milioni di posti vacanti – 1,2 milioni nella sola Germania –, tra cui sono censite figure di cuochi e camerieri in quantità. Così, mentre i lavoratori provenienti dall’Asia e dall’Africa cercano fortuna nelle cucine italiane, i nostri la inseguono in Europa, in America, a Singapore. «Fuori c’è tutto un altro mercato: un professionista bravino un passo oltre il confine, in Svizzera, guadagna sui 3000 franchi al mese, circa 2700 euro, il doppio di un collega italiano»: a parlare ora è Luciano Tona, per dieci anni direttore didattico di Alma, la più importante scuola di formazione per cuochi d’Italia, oggi presidente dell’Accademia Bocuse, consulente, titolare del ristorante Conte Rossini a Campione d’Italia. «Da noi si lavora per troppe ore e si guadagna proporzionalmente troppo poco – continua Tona – : tanti cercano opportunità altrove, alcuni abbandonano». Senza attendere i riscontri del progetto “Ciseinet” – avviato dal Centro Internazionale Studi Emigrazioni Italiana per raccogliere le storie dei connazionali all’estero – è facile trovare biografie esemplari. Quella di Mattalia lo è. Partito dal nostro Paese ventenne c’è poi tornato ma ha resistito poco più di un lustro: «in Italia gli imprenditori non hanno la possibilità di fidelizzare i dipendenti: non ci sono i margini a causa dell’eccessiva tassazione. Qui in Thailandia pago una media del 7 per cento di imposte, il mio titolare copre l’assicurazione medica a me e alla mia compagna e ci rimborsa un viaggio l’anno per tornare a casa. Quando ho deciso di lasciare l’Italia ho chiamato un contatto a Bangkok e ho trovato lavoro in cinque minuti di orologio. In più i clienti sono allegri, sereni: in Italia c’è troppa rabbia in giro. E non tornerò, ho persino buttato la sim italiana». Invece c’è chi volentieri farebbe il viaggio alla rovescia, se ci fossero le condizioni: l’Italia rimane una delle culle della gastronomia, il secondo paese al mondo per numero di stelle Michelin. Simone Tondo ne ha appena presa una a Parigi, nel suo bistrot Racines. Sardo, Tondo ha iniziato la propria carriera all’estero, ventenne: «in Sardegna non c’erano grandi opportunità. In tutti i grandi alberghi e ristoranti a governare sono se mpre i soliti nomi. È un Paese in cui i vecchi non passano il testimone ai giovani. Sarei felice di tornare nel mio Paese, ma continuo a vederlo bloccato». Niko Romito, lo chef decorato con tre stelle Michelin che, accanto al ristorante Reale di Castel Di Sangro, conduce un’accademia per giovani cuochi, conferma: «in Italia la formazione è eccellente, ma il costo del lavoro è altissimo. Oggi, grazie alla grande domanda di made in Italy, i nostri cuochi hanno possibilità di scelta in tutto il mondo». E anche l’Italia deve scegliere se vuole trattenerli. Prima che per mangiare una buona lasagna si sia costretti a volare a Dubai.