La Lettura, 12 agosto 2019
Romanzo di Doris Femminis (ospedale psichiatrico)
WimbledonxNel parlare di Fuori per sempre, secondo romanzo di Doris Femminis, credo sia da scindere l’intento della scrittura dal risultato più propriamente narrativo. Dove per intento leggo la particolare attenzione dell’autrice nel delineare sin nei minimi particolari l’universo di una struttura medica cui è demandata l’accoglienza di persone che abbiano incontrato problemi psichici di varia natura, per accompagnarli nel cammino di ritrovarsi. Quanto alla storia – il cui titolo ha peraltro un significato «salvifico» nel far da contraltare a quel «Lilì per sempre», scritta sul furgone utilizzato per un tentativo di suicidio, con cui il romanzo si apre, richiamante il Mery per sempre, film di Aurelio Grimaldi – è in sé semplicissima, ruotando attorno alla figura di Giulia, studentessa ormai prossima a laurearsi in Storia a Ginevra, salvata appena in tempo dall’amico Esteban con cui aveva poco prima litigato, e ricoverata al Mottino, reparto dell’ospedale neuropsichiatrico di Mendrisio, in Svizzera, governato dalla «brillante e umana» dottoressa Elena Sortelli, che «adora la crisi, le emozioni intense e la riflessione di gruppo».
Giulia è renitente a ogni tentativo di collaborazione e alla costante ricerca d’una possibilità di fuga: riuscendoci, in pigiama, una prima volta per recarsi al Paléo Festival di Nyon del luglio 1992 per ascoltare gli amati Jethro Tull, salvo esservi riportata tre giorni più tardi, «preda di un’angoscia che le toglieva il fiato», dai genitori di Esteban. Alfine reagisce alle richieste raccontando di Annalisa, «Lilì», la sorellina nata dal rapporto della madre Carmela con un giovane ingegnere, con conseguente crisi familiare tra il mite padre Franco e una madre sempre più «rintanata negli esaurimenti», ma pure dei propri contrasti con la madre e del non amore per quella sorella sempre più isolata e fuggitiva nel mondo del bosco e degli animali, sino alla sua tragica morte. Una spiegazione che la dottoressa legge come fantasia-specchio d’una Giulia che favoleggiando d’una Annalisa mai esistita dice delle proprie fughe e desideri di libertà. Quella libertà che Giulia riassapora insieme ad altri ricoverati all’apparire al Mottino della ribelle, anarchica e autodistruttiva Alex Sanders, con conseguenze potenzialmente tragiche, che però si risolveranno nel suo «fuori per sempre».
Si ha così tra le mani un ambizioso romanzo di buone intenzioni, nella ricordata volontà di affrontare tematiche profonde come i rapporti familiari (figlia-madre, per di più con esperienze di depressione) e i rapporti interni alla struttura ospedaliera rivisitata nei due aspetti con cui può essere recepita dal paziente: di prigione o di culla (esperienze vissute entrambe da Giulia), che grazie alla indubbia conoscenza dell’ambiente avendovi l’autrice operato per anni come infermiera professionale viene reso con delicatezza, grande umanità e partecipazione, anche nei minimi dettagli, a tratti persino da manuale reso in forma narrata. Il tutto intrecciato col piccolo universo di montagna del Ticino già al centro del primo romanzo, Chiara cantante e altre capraie, al pari del quale Doris Femminis punta a costruire una sorta di coralità narrativa attorno a Giulia.
Ciò che ha comportato una narrazione a fisarmonica, sempre pronta a pagine digressive per ricostruire le singole storie di ogni sia pur minimo personaggio. Storie nella storia con però ricadute quanto a dispersione narrativa, anche per il gran numero di personaggi coinvolti: una dimensione familiare quanto mai articolata e per di più con situazioni da «scandalo» (omosessualità d’un fratello di Giulia; la pedofilia dello zio; presenza di fratelli gemelli); eccessivo spazio dato alla vita privata di Elena; la stessa cura nel ben circoscrivere come ci si muove in quella struttura «basagliana» a livello di curatela, dilungandosi sulle persone che vi operano con disponibilità e amorevolezza, ma pure sulle criticità; presenza di singole storie (il giallo dello sfregio a certe tombe del cimitero). E se questo ha offerto all’autrice anche di ben disegnare singole figure (su tutte, oltre a Giulia, il fratello Sebastiano, il mite Franco, l’amico André) e il microuniverso culturale del paesino, ha però comportato uno sfilacciamento narrativo, penalizzando la tensione espressiva in ciò che maggiormente è proprio all’autrice: la sofferenza e i conflitti interiori di Giulia (anche attraverso Annalisa e la sua espressività lirico-mentale, rifuggendo il personaggio dal parlare).
Tanto più questo succede quando l’interiorità si riversa nel suo opposto: le due fughe (un po’ confusa la prima) che hanno del romanzesco, per di più stereotipato, da memoria cinematografica tra Easy Rider, Thelma e Louise e un briciolo di Un uomo da marciapiede. Con una scrittura che dall’intensità, a tratti anche lirica, finisce per farsi persino scolastica.