Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2019
01QQWF4 Maurensig e una biografia sugli scacchi
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Wimbledonx
Un anno dopo l’uscita de Il diavolo nel cassetto, Paolo Maurensig pubblica, sempre per Einaudi, Il gioco degli dèi: torna così al prediletto tema degli scacchi, svolto con la consueta maestria. È stato infatti il tema del suo debutto, nel 1993, con La variante di Lüneburg (Adelphi, a oggi 39 ristampe in due diverse edizioni) dichiaratamente ispirato alla Novella degli scacchi (1941) di Stefan Zweig; è il tema di altri suoi romanzi, anche recenti come L’arcangelo degli scacchi (Mondadori 2013) e Teoria delle ombre (Adelphi 2015) rispettivamente dedicati a due grandi maestri: l’americano Paul Morphy (1837-1884) e il russo Alexandre Alekhine (1892-1946), entrambi campioni del mondo (il primo informalmente), entrambi perdenti nella vita. E certo diseguale e tormentata, almeno dal punto di vista esteriore, è anche la vita del protagonista di quest’opera recentissima, l’indiano Malik Mir Sultan Khan (1905-1966) nella cui vicenda Maurensig intreccia biografia reale ed episodi immaginari, secondo la sua concezione affascinante della letteratura che si nutre di letteratura. (Consonanza che mi colpisce, perché era esattamente il modo di concepire la letteratura nell’India classica).
Già gli eventi dell’esistenza del protagonista appaiono eccezionali, o meglio lo è la loro escursione: nasce nel Panjab in una casta di servitori (gli shudra), perde i genitori divorati da una tigre, autentica incarnazione del demoniaco e, al tempo stesso, strumento del karma, la dottrina indiana delle rinascite dipendenti dalle azioni compiute nelle vite passate. Grazie alla sua innata predisposizione alchaturanga, l’antenato indiano degli scacchi, passa sotto la protezione di Sir Malik Umar Hayat Khan, grande latifondista dalle incalcolabili ricchezze, alto ufficiale dell’esercito britannico, combattente intrepido, ospite raffinatissimo, patriota sotto mentite spoglie che cerca ogni occasione per umiliare sottilmente gli inglesi con la straripante ricchezza sua personale e con la cultura straripante del suo Paese.
Uno fra i mezzi adibiti a questa umiliazione è proprio il giovane Sultan Khan, che il principe fa perfezionare nel chaturanga e negli scacchi europei, con l’intento di portarlo a Londra per partecipare al British Chess Campionship: il successo, per tre anni consecutivi a partire dal 1929, è trionfale, anche se lo sconcertante (e sconcertato) campione è sempre visto con disprezzo nell’ambiente inglese e non riesce a scrollarsi di dosso l’etichetta di idiot savant che lo perseguiterà sempre e dappertutto in Occidente.
Sono gli anni a ridosso della seconda guerra mondiale; inopinatamente, dopo altri risultati straordinari nei tornei internazionali e dopo le Olimpiadi scacchistiche del 1933, il principe cessa di promuovere l’attività scacchistica di Sultan Khan. Poi, a causa di una prolungata malattia e assenza, lo affida a un nobile inglese suo amico. Nella residenza in campagna di Lord Clearwater l’ex-campione vive trascurato ai margini del folto gruppo dei servitori, ai quali la casta fatalmente lo equipara, sempre guardato da loro con malevola sufficienza. Unico a manifestargli attenzione e comprensione è il vecchio maggiordomo che gli insegna anche a guidare la Rolls-Royce del signore. (Cosa che gli tornerà assai utile in un successivo, totalmente nuovo, periodo della sua vita). Intenzionalmente interrompiamo qui il racconto, che entra in un’inquietante fase di spionaggio (e parapsicologia!); il protagonista sarà prima valorizzato dallo specialissimo entourage di Lord Clearwater, poi sbarcherà semifuggitivo a New York da una baleniera norvegese qualche anno dopo la guerra. In attesa di altri cambiamenti, incontri e fortune… che non si esauriranno negli Stati Uniti.
Il dipanarsi della trama, impaginata da Maurensig con grande dinamismo e al tempo stesso con dominio consapevole del multiforme suo materiale, si avvantaggia di una scrittura asciutta ed elegante. E la vicenda di per sé lascia immaginare la molteplicità e la densità dei significati sottostanti. Fra gli spunti di più immediato riferimento indiano, tutti sviluppati dall’autore con acume e con appropriatezza culturale, vorrei sottolineare la convinzione dell’esistenza dei demoni, il rapporto fra servitori (la casta di Sultan Khan) e aristocrazia (il maharaja suo protettore e sponsor), quello fra nobiltà indiana e dominatori inglesi, ma pure quello fra uomo e mondo degli dèi, la già accennata dottrina del karma; oltre naturalmente agli antecedenti indiani degli scacchi, di cui offre la prima testimonianza un famoso poema epico in sanscrito del VII secolo d.C. e che sono a loro volta ricchi di valenze simboliche.
Metafora della guerra, metafora della vita ossia del gioco con la morte – come nel celebre film di Bergman Il settimo sigillo –, nell’avvincente narrazione di Maurensig gli scacchi perciò si caricano anche di valori esclusivamente indiani: primi fra questi l’accesso «a una realtà diversa da quella percepibile dai cinque sensi», l’incontro con il piano divino e la tramutazione spirituale di se stessi. Nel percorso della propria realizzazione interiore, filo segreto che lega gli eventi, Sultan Khan troverà, inaspettatamente a New York e in una persona certamente inaspettata, ma destinatagli secondo lui dal reciproco karma, la propria inimitabile guida.