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 2019  agosto 12 Lunedì calendario

Woodstock raccontata da Carlo Verdone

«Nell’agosto del 1969 tu non eri nato, io avevo 18 anni: vieni giovedì a casa da me, che ti racconto Woodstock…» È iniziata così la storia di questo strano incontro: mezzo secolo dopo l’evento di Bethel che fu il re dei concerti, mi presento di buon’ora da Carlo Verdone per farmi spiegare quei tre giorni di Peace and Rock. D’altra parte, chi meglio di lui? Carlo è una delle massime autorità in materia, e a darmene riprova non è solo la dettagliata disamina dei fatti, quanto la luce che gli illumina il volto ogni volta che l’album dei ricordi materializza sul tavolo i mostri sacri del Pantheon Rock: lui non solo li ha conosciuti, ma con qualcuno ha perfino suonato, e Santana lo fece assistere da dietro le quinte al suo concerto all’Olimpico.
Ma è quando gli mostro una foto di Jimi Hendrix a Woodstock, che intuisco dove stia il confine fra l’esperto e il cultore, laddove quest’ultimo implica un coinvolgimento profondo, parente di certi graffi dell’anima: «Io a quest’uomo devo dire grazie, sai? Mi ha colorato l’esistenza. Quando ascoltai il suo primo LP, fui come folgorato. E pensa: c’era un brano che non mi piaceva, ma oggi ti dico che è il più bello. Era un appuntamento col mio futuro, come se Hendrix avesse messo in musica quello che ero e quello che sarei stato». Annoto queste parole e non riesco a non pensare che sono le stesse di Italo Calvino sui classici. Jimi Hendrix come Omero? Perché no? Parliamo della capacità di esprimere un tratto comune agli esseri umani, e con esso lo spirito del proprio tempo, togliendogli i confini. Per cui Woodstock – mi sembra di capire – fu un po’ questo: il massimo simbolo di un’epoca (con i suoi miti, i suoi ritmi) proiettato però in una dimensione che non smette di parlare. «Guarda questa foto: migliaia di visi sotto il palco. Puoi dire che è solo un concerto. Ma no, non lo è. Questa gente stava lì per qualcosa che era oltre la musica: la vera arte nasce sempre da una visione del futuro». E mentre pronuncia queste parole, è impossibile non avvertire una malcelata nostalgia, che sarebbe tuttavia banale ricondurre al trito refrain degli ideali tramontati.
Carlo, infatti, si spinge oltre: «Mi manca quel prendersi il rischio. Woodstock insegna che se ci credi, puoi darti del tutto, a capofitto. Pensa a Joe Cocker: alla fine della canzone è quasi rauco, è una specie di autodistruzione, da brividi. Capisci? Qui c’è un uomo con un’energia tale che è un sacerdote, folle, in questo grande rito spirituale e laico...». Già, un rito. In effetti un sapore di sacro emana, fortissimo, dalle incisioni audio in cui si apprezza l’incredibile silenzio della moltitudine durante le esibizioni. Rispetto per l’artista? Non solo. Come mi dice giustamente Carlo, c’era ancora un senso alto dell’ascolto, senza il quale non puoi capire dove stia la differenza con megaeventi di musica elettronica come l’Untold Festival (che comunque non compete coi numeri di Bethel): «Oggi non troveresti traccia di quel silenzio, avresti anzi il pubblico che canta lui e dà le spalle al palco per farsi il selfie. In questi cinquant’anni abbiamo assistito a una cambio radicale del verbo condividere. A Woodstock condividevano con chi era lì con loro, oggi invece condividono con chi non c’è. Insomma, a Woodstock non c’erano singoli individui col proprio cellulare, c’era un’umanità». Ed ha ragione: perfino a me, estraneo per età a quel mondo, le fotografie raccontano che il popolo di Woodstock vibrava per una missione autoconferita, quella di reggere il timone a un mondo in evoluzione. Carlo annuisce, sornione: «Il pubblico fece addirittura una danza tribale, per far smettere di piovere. Era un gioco, certo, ma nascondeva il punto di fondo: queste persone credevano di avere un ruolo, di poter cambiare le cose, far tornare il sole. In parte ci sono pure riusciti: la segregazione razziale, la condizione femminile…». E qui di nuovo un’ombra si allunga sulla frase. C’è un enigma nell’eredità morale (e politica) di quei tre giorni, una disillusione di cui chiedo ragione a Carlo. Lui non mi risponde, fissa lo sguardo su una foto degli Who, è come se il quesito lo rivolgesse a loro. Solo dopo un po’ ci prova: «Fu come una fiamma, che fa una gran luce ma brucia tutto insieme. È la grande contraddizione: volevano cambiare il mondo ma restando per sempre giovani e controcorrente. Gli Who cantavano “fammi morire prima che diventi vecchio”, ed è un po’ come se stesse tutto lì: era un’ebbrezza, una grande scarica di adrenalina, rivoluzionaria, ma sotto sotto volevano restare ragazzini». Qui scende il silenzio. Penso a Elsa Morante, a cosa avrebbe detto se avesse saputo che il mondo non sarebbe stato salvato dai ragazzini. Intanto Carlo mi mostra in bianco e nero la grande spianata deserta, quando tutto ormai è finito e ci sono solo cartacce: «Molte cose nacquero da quei tre giorni. Non parlo solo di figli… Neanche dieci anni dopo, io stesso ero presente al Festival dei Poeti di Castelporziano che fu vissuto come una Woodstock di casa nostra. Ma il clima era già diverso, tutto stava cambiando. E oggi ci troviamo con l’America in mano a Trump… Sono stato nell’Indiana a fare delle lezioni all’Università e un professore mi diceva che vicino a casa sua, liberamente, è tornato ad addestrarsi il Ku Klux Klan». Su questo dettaglio scopriamo di aver esaurito le foto, i ricordi, le impressioni. Cinquant’anni? Sembrano tre secoli.