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 2019  agosto 12 Lunedì calendario

Il punto su Salvini

Votare o non votare? Questo sembra essere adesso il problema. Unire forze che fino a ieri si erano disprezzate a sangue o liquidare per sempre una legislatura nata male? Eh già, ragionano i resistenti alle urne, se cediamo allo scacco di Salvini, ancora una volta l’avrà vinta lui. Eh già, ragionano i ragionevoli, se allestiamo un’alleanza improbabile solo per rovinargli i piani, ripeteremmo al peggio l’esperimento di Mario Monti, finito per diventare incubatrice di molti virus anti-sistema.
Per adesso, l’unica cosa certa è la scena del delitto. Manca però il movente. E non basta a fornirlo il tonitruante appello rivolto dall’aspirante capo della nazione al popolo della nazione medesima: «Chiedo agli italiani di darmi pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare fino in fondo, senza rallentamenti e senza palle al piede». Mani libere, basta intralci, via gli orpelli della democrazia, parlamentare e no. Nessuno aveva mai osato tanto in 73 anni di vita repubblicana? Beh, c’è sempre una prima volta. Con buona pace delle vispe mosche pompiere che invitano a non dare troppo peso a parole, atti e omissioni da rubricare, secondo loro, nel normale folclore politico. Folclore che per altro stiamo sperimentando ininterrottamente da un anno e mezzo, con una campagna elettorale che è continuata per l’intera durata del governo Conte e proseguirà, se possibile in maniera più scomposta, per i mesi a venire. Non sarà comunque facile per la minoranza di Salvini spiegare perché ha voluto abbattere un governo di cui era proterva maggioranza. Né le sarà agevole insistere, con disprezzo dell’evidenza, che il motivo sta nei troppi “no” ricevuti negli ultimi mesi. La realtà racconta che dal 26 maggio, giorno del trionfo leghista alle Europee, i rapporti di forza dentro l’esecutivo, già squilibrati a favore del socio numericamente più piccolo, si sono prestamente trasformati in una vera sudditanza. Dal basso del suo 17 per cento, contro una forza col doppio dei consensi, Salvini ha collezionato una sfilza imbarazzante di atti di sottomissione: decreto sicurezza, Tav, nessun disturbo sulle ombre lunghe di Moscopoli né sullo spettro dei 49 milioni scomparsi dalle casse della Lega. Un compagno di viaggio così supino ai tuoi desiderata era impossibile persino immaginarlo. Eppure neanche il suicidio del Movimento è bastato. Movimento che si è auto-avvelenato, goccia dopo goccia, pur di evitare la goccia fatale, quella delle urne.Su che cosa abbia fatto saltare il traballante banco gialloverde, e sul perché Salvini abbia deciso di giocarsi il futuro con una fretta che neanche i sondaggi a lui più favorevoli giustificherebbero, le interpretazioni si sommano ma in fondo non spiegano. Evitare di accollarsi l’inevitabile legge di Bilancio da almeno 23 miliardi, l’aumento dell’Iva, la pressione delle procure che prima o poi stringeranno qualche nodo sui traffici dell’ex sottosegretario Armando Siri o sul via vai all’Hotel Metropol, ambasciata russa della Lega (e, non a caso, il nuovo re di spiagge e selfie ha già annunciato che cambierà la giustizia dalle fondamenta, modalità ruspa). Eppure, neanche sommando questi e altri addendi, il saldo finale torna. Qualcuno o qualcosa, non certo il bagno di folla al Papeete Beach, deve aver convinto il capo della Lega all’uno contro tutti in un momento meno favorevole, e anche meno comprensibile, di quello che gli si presentava all’indomani delle Europee. Perché allora no e adesso sì? Perché, invece di cogliere l’attimo, ancora a inizio giugno sfoderava un aplomb da uomo delle istituzioni, sostenendo a più riprese che «l’ultima cosa di cui il Paese ha bisogno è una crisi di governo, e quindi proseguiremo nella nostra azione fino a fine mandato»?
La bestiale macchina della propaganda leghista è già a pieno regime. Glisserà sull’improvvisa inversione di marcia del ruvido leader, sparerà ad alzo zero contro gli ex alleati ex grillini, bastonerà il Papa che ha evocato il fantasma di Hitler a proposito dei sovranismi, abbaierà all’Europa fingendo che l’Italia possa farcela da sola e sfidandola sul terreno minato dei parametri economici.
Su quest’ultimo punto, cruciale per i destini di uno dei Paesi madre dell’idea stessa di Europa, per inciso l’unico continente al mondo che sarà guidato per i prossimi cinque anni da una liberaldemocrazia, lo scatenato Salvini ha già messo le cose in chiaro: «Abbasseremo le tasse, indipendentemente da cosa dice la Ue». Una spericolata manovra in deficit su deficit. Se no n è ancora “l’Italexit”, pochissimo ci manca.
Circolano in questi giorni ipotesi fintamente nobili di governi tecnici, di scopo, del presidente, istituzionali, a responsabilità limitata, di garanzia a scadenza e di scadenti collanti. L’obiettivo sarebbe triplice: traghettare l’Italia fuori dalla tempesta perfetta che si sta delineando, conservare posti in Parlamento altrimenti irrimediabilmente perduti, e infine lasciare cuocere l’avversario più temibile in un rabbioso isolamento. Andasse in porto un disegno simile, Salvini si gonfierebbe come il PacMan giallo dei primi videogiochi, ingloberebbe alimentandola ogni stilla di risentimento vagante contro la casta, il complotto dei poteri forti, medi o inesistenti, e si prenderebbe quel che resta di noi senza neanche lo sforzo di aprire le mascelle.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha promesso una gestione trasparente di questa crisi, «la più trasparente nella storia della Repubblica». Siccome gli crediamo, il passo successivo, in assenza di una maggioranza alternativa credibile, sarà consegnare il testimone al presidente della Repubblica, che poi deciderà il percorso migliore per evitare a un Paese in sofferenza una ulteriore retrocessione, non solo economica ma anche civile e morale. Al di là delle bugie e delle cortine fumogene della disinformazione, i cittadini che ancora votano saranno prima o poi chiamati a prendere una decisione molto semplice: scegliere tra un Paese saldamente legato all’Europa, principi democratici compresi, e un altro tipo di Paese, inedito, isolato, arrabbiato, che per la prima volta metterà la prua verso una direzione contraria all’Occidente, candidandosi a diventare un satellite di Putin. Non che i patti con i partner europei non possano e non debbano essere ricontrattati. Ma non è questa la vera posta in gioco. Il rischio nascosto, la grande trappola mascherata sotto il velo del “prima gli italiani”, è il passaggio da un sistema democratico e indipendente a una nebulosa il cui sole è rappresentato da una dittatura mal truccata e da una serie di Stati vassalli che hanno scelto la strada breve di essere padroni a casa propria, possibilmente senza opposizioni, impermeabili alla cooperazione civile (in tema di migranti, e non solo) e senza rapporti di collaborazione se non con i fratelli separati della propria galassia.
A giudicare dall’oggi, le elezioni che verranno, quando verranno, non le vincerà il migliore. Ma il compito di un giornale, la missione di Repubblica da quando è stata fondata, non è influenzare né indirizzare il voto libero, e speriamo consapevole, di ogni italiana e italiano. Il nostro lavoro, l’impegno che metteremo, sta racchiuso in una frase di Albert Camus: «Nei tempi bui, resistere è non consentire menzogne». Vale per l’uomo solo al comando. Ma anche per i volenterosi promotori di alleanze temerarie.