Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  agosto 12 Lunedì calendario

Intervista a Riccardo Muti. Parla di Herbert von Karajan

Prima di lui ci sono stati Toscanini e Furtwängler. Ma è con Herbert von Karajan che è nato davvero il culto del direttore d’orchestra, l’officiante del rito. Domani al Festival di Salisburgo Riccardo Muti dirigerà i Wiener Philharmoniker nella Messa da Requiem di Verdi in sua memoria, a 30 anni dalla scomparsa.
Maestro, quando apparve sulla scena Karajan?
«Era molto giovane, nel periodo infausto della Germania nazista. C’erano grandi direttori tedeschi su cui dominava la figura di Furtwängler, benedetta da Dio come si diceva allora. Nelle lettere, fu preso da forte gelosia verso quel giovane direttore, lo visse come una minaccia del nuovo che spodestava la sua posizione, lo chiamava “il signor K”, non pronunciava nemmeno il suo cognome per intero».
Dopo la guerra…
«Fu aiutato dal coro viennese dei Singverein, e si rifugiò in Italia, in alberghi di quart’ordine e poi ospite del barone de Banfield. Karajan fu colpito dalle sanzioni, era stato iscritto al partito ma non aveva nulla del nazista. Era un modo per arrivare al suo obiettivo: diventare direttore della Filarmonica di Berlino. Se non facevi parte dell’establishment, era impossibile».
Lei lo conobbe.
«Mi invitò a debuttare nel 1971 a Salisburgo col Don Pasquale. Anni dopo mi telefonò alle 7 del mattino proponendomi Così fan tutte. Cercai di prendere tempo. E lui: mi dica ora sì o no. Parlavamo in italiano, dandoci del “lei”. Aveva un grande senso dell’humour: a un Tristano, un celebre tenore, dopo tante interruzioni, disse a Karajan: ci sono cento direttori che possono dirigere, ma solo cinque possono cantare il Tristano. Un attimo di gelo. Poi Karajan esclamò: sono d’accordo con lei, io sono uno dei cento, ma lei non è uno dei cinque. Era generoso, tutti i direttori tra i 60 e gli 80 anni sono stati aiutati da lui. Era umile, per Mascagni chiese consigli a Franco Ferrara. Gli domandai di Guarnieri, anti-divo ingiustamente dimenticato: mi disse, riconoscerei il suo suono nel buio. Certo nel suo modo di condurre i Berliner era severo, ma sul podio ci vuole un leader».
Perché dopo 35 anni arrivarono a una rottura?
«Ci sono sempre tanti motivi, è difficile trovare una risposta esauriente. Fu un processo di graduale deterioramento. L’eccessivo dispotismo? È facile dirlo quando conviene. L’industria discografica arretrava, poi molti dei Berliner mandavano sostituti e lui voleva mantenere alto il livello. Tanto che nell’89 a Salisburgo mi disse: non voglio più incontrarli. Li diriga lei nel Requiem di Verdi. Morì in quei giorni e lo dedicammo a lui, come sarà ora».
Com’era il Verdi di Karajan?
«Viennese, per i colori. Nel Verdi “popolare” prendeva dalla tradizione dell’epoca, accettava tagli e acuti fuori luogo. Ma il suo fraseggiare era unico. Furtwängler era l’espressione di un mondo politico che tendeva attraverso la musica ad affermare la supremazia della Germania e a volte cedeva al gigantismo con ondate sonore che sembravano tsunami (ma parliamo di un gigante); Karajan fu di una modernità assoluta, il direttore che, alla fedeltà toscaniniana, portava una luce nuova, con cui “indorava” tutto. Il bel suono di Karajan: trasparenza, eleganza, sontuosità».
E il gesto minimalista?
«Era circolare, di fronte al suo viso, diverso dal modo usato del battere il tempo. Morbido, flessuoso e violento se necessario; disegnava la frase con le mani».
Il Karajan regista…
«Aveva idee precise, non voleva che la regia disturbasse la musica, non erano colpi di genio ma tranquille. Oggi, si rivolterebbe nella tomba. O forse avrebbe fatto come Toscanini a New York, opere in forma di concerto».
Lei prese casa ad Anif…
«Tra le valli salisburghesi, nella via in cui abitava Karajan, che già allora si chiamava Karajan Strasse. Fu un caso. Il suo maggiordomo, Francesco, mi disse che c’era un pezzo di terreno disponibile».