Corriere della Sera, 12 agosto 2019
Il sovranismo di Nixon
Quarantotto anni fa, la sera del 15 agosto 1971, il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, parlò in televisione. Grigio e cupo annunciò la sospensione «temporanea» della convertibilità del dollaro in oro accompagnata da una tariffa del 10 per cento sulle importazioni. Queste misure – disse – avrebbero colpito gli speculatori, non il cittadino medio americano: «Se comprate un’auto straniera o fate un viaggio all’estero i vostri dollari compreranno qualcosa in meno. Ma se siete parte della stragrande maggioranza degli americani che comprano prodotti americani fatti dagli americani, i vostri dollari varranno domani tanto quanto valgono oggi».
Era la fine del sistema dei cambi fissi che aveva accompagnato la ricostruzione postbellica e inaugurato una lunga era di sviluppo economico e di prosperità. Ma il volto tetro di Nixon rivelava soprattutto che la supremazia economica americana sancita nella conferenza di Bretton Woods del 1944 subiva una pesante sconfitta.
A Bretton Woods si erano scontrate due diverse visioni del funzionamento del sistema monetario. Keynes aveva proposto di eliminare l’oro dalle transazioni internazionali e di sostituirlo con il bancor, una moneta fiduciaria da emettersi secondo le necessità dell’economia mondiale. Gli americani avevano preteso di porre il dollaro al centro del sistema: i Paesi avrebbero fissato il cambio fra la propria valuta e il dollaro e quest’ultimo sarebbe stato convertibile in oro al prezzo fisso di 35 dollari l’oncia. Il dollaro diventava lo strumento principale di regolazione delle transazioni internazionali e le riserve auree degli Stati Uniti erano poste a garanzia del sistema.
Ora gli Stati Uniti dichiaravano di non essere in grado di onorare questa garanzia. Come si era giunti a questo esito?
Il paradosso di Triffin
Il problema del sistema di Bretton Woods era che esso si fondava sulla forza, presente e futura, del dollaro. Nel 1959 l’economista belga Robert Triffin aveva segnalato una contraddizione, un «paradosso» che da lui prese il nome: se la bilancia dei pagamenti americana era in attivo, il dollaro era forte, nessuno aveva interesse a convertirlo in oro, ma la disponibilità di dollari era insufficiente ad alimentare il sistema dei pagamenti internazionali; se la bilancia dei pagamenti americana passava in deficit, divenivano disponibili grandi quantità di dollari, ma chi li deteneva aveva ragione di temere che essi in prospettiva non valessero e avrebbe preferito cambiarli in oro. Così però le riserve americane si intaccavano e la garanzia veniva meno.
Nell’immediato dopoguerra la bilancia dei pagamenti americana era in attivo, ma dalla fine degli anni Cinquanta essa andò in deficit, mentre quelle dei Paesi europei erano passate in attivo. Il dollaro «allagava» i mercati europei, ma la sua abbondanza era anche un segno di debolezza.
Per contenere il problema che diveniva man mano evidente vennero tentate varie strade. Nel 1961 fu costituito il «pool dell’oro», un consorzio di banche centrali che si impegnava a mantenere la quotazione dell’oro in prossimità del prezzo ufficiale di 35 dollari l’oncia. Nel 1962 la Bundesbank, riconoscendo che parte del deficit americano dipendeva dalle spese per il mantenimento dell’esercito di stanza in Germania (il Muro di Berlino era stato costruito un anno prima), si impegnò a non convertire in oro gli afflussi futuri di dollari. Anche la Banca d’Italia si astenne dal convertire in oro la totalità dei surplus accumulati, per non aggravare la crisi di un sistema da cui era nata la prosperità postbellica.
Le navi di de Gaulle
Questo e altro non bastò, anche perché altri Paesi puntavano a sgretolare il sistema. L’Unione Sovietica, che non aveva aderito al Fondo monetario internazionale, deteneva ingenti riserve di oro che sperava si rivalutassero. Ancora più grave la posizione della Francia. Il 4 febbraio del 1965 il generale Charles de Gaulle pronunciò una dura requisitoria nei confronti del dollaro, considerato uno strumento per la promozione degli interessi esclusivi degli Stati Uniti. Pochi mesi dopo chiese la conversione in oro di larghi quantitativi di dollari, affidandone il trasporto, in una azione spettacolare, alle navi da guerra della marina francese.
Alla lunga i deficit della bilancia dei pagamenti americana, enormemente aggravati dai costi della guerra del Vietnam, resero impossibile il mantenimento del sistema. Così il 15 agosto del 1971 l’America dovette arrendersi. Per quanto la crisi fosse ormai considerata inevitabile, l’annuncio di Nixon fu uno choc. Il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, rientrò in tutta fretta dalle vacanze. Il mattino dopo, non senza difficoltà, fu disposta la chiusura del mercato dei cambi: «Nel deserto ferragostano di Roma – scrisse – non era stato facile stabilire il contatto con le autorità».
Le radici del presente
Nel dicembre del 1971 vi fu il tentativo, con lo Smithsonian Agreement, di ripristinare il sistema con una lieve svalutazione del dollaro. Ma fu vano: nel 1973 l’America annunziò che passava ai cambi flessibili. Le conseguenze furono enormi.
A Bretton Woods gli Stati Uniti avevano assunto una responsabilità globale. Con la sua fine tutto cambiava. Gli Stati Uniti cominciavano a «disinteressarsi» dell’ordine liberale internazionale. Si staccavano anche dall’Europa. Da allora Europa e Stati Uniti avrebbero cooperato, ma si sarebbero anche posti in competizione. Forse la trade war di Donald Trump è una manifestazione ultima del distacco iniziato allora.
Per i Paesi della Comunità economica europea, la Cee, si pose il problema di assicurare al loro interno la stabilità dei cambi che consideravano necessaria al prosieguo del processo di integrazione. Nel 1970 era stato presentato il rapporto Werner, che suggeriva la creazione di una moneta comune. Nel 1972, un anno dopo la dichiarazione di Nixon, fu istituito il «serpente monetario», precursore dello Sme e dell’euro.
Ma questo è ancora un altro capitolo della storia.