La Stampa, 12 agosto 2019
Non è come nel 1994
OGGIXPer prima cosa, è giusto chiamare le cose con il proprio nome: un ribaltone è un ribaltone, non c’è niente di illegale o incostituzionale nel farlo, basta solo non dipingerlo per quel che non è: un governo di salute pubblica, d’emergenza, di salvaguardia dell’euro e così via, siamo solo ai primi giorni del tentativo di evitare le elezioni, chieste da Salvini dopo aver annunciato la fine del governo Conte, e già le fantasie più sbrigliate si esercitano.Come pure si danno da fare stimati giuristi, intenti a dimostrare che quanto sta accadendo non assomiglia per niente a ciò che avvenne già nel 1994, quando un’ “intentona” organizzata da Bossi, D’Alema e Buttiglione mandò a casa, dopo soli otto mesi a Palazzo Chigi, Berlusconi, reduce da una clamorosa vittoria elettorale e per questo spedito all’opposizione per sette anni, fino al 2001, attraverso la sconfitta inflittagli nelle elezioni del 1996 sempre dalla Lega, che pur di farlo perdere si presentò da sola, rompendo il patto con Forza Italia che l’aveva portata alla vittoria con il Cavaliere e che proprio per questo corse subito a rifirmare cinque anni dopo.
Altri tempi, nessun paragone è possibile, già dicono gli illustri giureconsulti impegnati a legittimare il capovolgimento odierno. Allora infatti, con il maggioritario, si tradiva la volontà degli elettori, che a furor di popolo avevano scelto “Silvio” come premier. Ora invece, in regime di proporzionale, i governi si formano in Parlamento. E i partiti, a certe condizioni, sono liberi di allearsi con chi gli pare. Giusta obiezione. Ma a parte il fatto che gli elettori di un anno e mezzo fa si erano divisi tra il centrodestra e i 5 stelle, determinando la più grave sconfitta politica mai subita dal centrosinistra, e a parte la sbandierata volontà di “cambiamento” che diede il nome e la ragione sociale all’esecutivo giallo-verde, tanto che i grillini pretesero, e Salvini accettò, che la sola Lega, e non anche gli altri alleati del centrodestra, ne facessero parte, in base a cosa adesso due partiti, anzi, un partito e un movimento finora avversari, collocati uno in maggioranza e uno all’opposizione, dovrebbero scoprire le ragioni per fare un governo insieme? Fino a qualche giorno fa (ma venerdì sul suo blog se ne è guardato bene) Grillo definiva “ebetino” Renzi, il suo più probabile futuro alleato. E Di Maio, il capo politico pentastellato, non ha esitato a prestarsi alla campagna, nata dall’inchiesta giudiziaria su un torbido sistema di adozioni, che ha portato i 5 stelle a definire il Pd “il partito di Bibbiano”, perché nella stessa località aveva il sindaco. Renzi, autore dell’hashtag #senzadime, rimesso in rete tutte le volte che s’è parlato di alleanza tra Pd e grillini, li ha sempre ricambiati da par suo, definendoli “cialtroni”, “amici dei no-vax” (cosa peraltro vera), “quelli che non credono allo sbarco sulla luna ma alle sirene”, e annotando su Di Maio “che quando gli parli, per capire ha bisogno dei disegnini” e che “non ha mai letto un libro senza le figure”.
Ma per carità, ogni ripensamento è possibile. La politica è fatta di questo e sovente anche dei cosiddetti “stati di necessità”, come appunto l’emergenza che da qualche giorno Renzi (ma non Zingaretti), Grillo, Di Maio e lo stato maggiore 5 stelle sono intenti a delineare, insieme al timore che un’Italia in cui molto probabilmente Salvini uscirebbe vincitore dalle prossime elezioni sarebbe destinata a uscire dall’euro, dall’Europa e dal suo tradizionale sistema di alleanze con la Nato, per allinearsi alla Russia di Putin. Di qui l’appello al Capo dello Stato a provvedere al più presto, grazie alla sua incontestabile autorità, a dar vita a un “governo del Presidente”, non semplicemente “elettorale”, come gli ultimi, guidati da Fanfani nel secolo scorso, incaricati di regolare e arbitrare la vigilia delle urne, ma dotato di pieni poteri e destinato a restare in carica il più a lungo possibile, almeno fino all’esaurimento della spinta propulsiva di Salvini e del salvinismo. Un governo “istituzionale”, come potrebbe essere se guidato da uno dei due presidenti delle Camere (e magari, più probabilmente, dalla Casellati, per la novità della prima donna premier e per la difficoltà che avrebbero Berlusconi e Forza Italia a votarle contro). Oppure di “tregua”, forse neppure composto da politici, per poter dire che non nasce per fame di poltrone.
Non si sa che vorrà fare davvero Mattarella, ritiratosi per qualche giorno alla Maddalena, per riflettere su una situazione così complicata e sottrarsi al frastuono e allo sperpero di parole degli ultimi giorni. Ma di una cosa si può star certi: la gran confusione di queste prime ore di crisi sicuramente non lo aiuta.